Da anni le case discografiche sono sotto il mirino delle autorità Antitrust, pronte a intervenire contro accordi di cartello che danneggiano il mercato e il consumatore attraverso il controllo dei prezzi di vendita (in Italia, nel 1997, la Commissione Garante per la tutela della Concorrenza presieduta da Giuliano Amato comminò alle major una multa complessiva del valore di oltre 7 miliardi e mezzo di lire, escluse le spese legali). Ultimamente, com’è ovvio, le attenzioni si sono spostate sui download e sul mercato digitale: soprattutto negli Stati Uniti, dove tra il 2005 e il 2006 si sono accumulate quasi 30 azioni giudiziarie sull’argomento. Senza esito, fino ad oggi, ma il vento potrebbe cambiare dopo che una corte federale newyorkese ha bollato come “erroneo” il giudizio di primo grado che nell’ottobre del 2008 aveva assolto dall’imputazione di pratiche anticoncorrenziali le società Bertelsmann AG, EMI Group, Sony Corp. Time Warner Inc, Vivendi SA, Warner Music Group Corp ed etichette affiliate. I ricorrenti in giudizio accusavano le major (titolari di oltre l’80 per cento della musica venduta in formato digitale negli Stati Uniti) di avere costituito joint venture (le ormai defunte MusicNet e Pressplay) e stipulato contratti restrittivi di licenza con i rivenditori al fine di concordare un tetto minimo per i prezzi all’ingrosso dei file digitali (circa 70 centesimi a brano), rifiutandosi inoltre di intrattenere rapporti commerciali con chi non volesse sottostare a tali condizioni. E ora il giudice Robert Katzmann ha ritenuto sufficientemente plausibile l’ipotesi della sussistenza di un accordo contrario alle leggi antitrust americane raccolte sotto lo Sherman Antitrust Act. Nel dispositivo della sentenza, il giudice newyorkese cita i servizi MusicNet e Pressplay e l’associazione di categoria RIAA (Recording Industry Association of America) come “forum e strumenti attraverso i quali i convenuti in giudizio potevano comunicare su prezzi, condizioni contrattuali e restrizioni d’uso”. Il caso, dunque, è riaperto.