Da anni l’industria discografica italiana cita ad esempio i regimi fiscali più favorevoli in vigore in altri Paesi europei, per invocare la riduzione dell’imposta sul valore aggiunto applicata alla vendita di supporti musicali (dal 20 al 4 % , la tariffa applicata ai libri). Ma ora proprio la nazione guida del Vecchio Continente, il Regno Unito, prende la strada opposta: a partire dal 4 gennaio del 2011, ha annunciato il Cancelliere dello Scacchiere George Osborne presentando la nuova manovra finanziaria anticrisi, l’Iva (o Vat, come dicono gli inglesi) sui beni di consumo, dischi inclusi, salirà appunto dal 17,5 al 20 %, con immaginabili ripercussioni negative sul commercio al dettaglio. I rivenditori si troveranno di fronte a una scelta difficile: strizzare ulteriormente i propri margini di profitto per non ritoccare i prezzi al pubblico (negli ultimi anni divenuti estremamente competitivi, come ben sanno i turisti italiani che frequentano Londra e le altre città britanniche), oppure scaricare sul consumatore l’aumento dei costi con un prevedibile effetto deprimente sulle vendite. Lo slittamento dell’entrata in vigore del nuovo regime all’inizio del 2011 dovrebbe servire, nelle intenzioni del Governo, a stimolare una ripresa dei consumi da qui a fine anno (e a dare tempo sufficiente ai negozianti per riprezzare lo stock dei prodotti presenti sugli scaffali). Ma si tratta comunque di una mazzata che danneggia l’intera industria musicale e soprattutto i negozi indipendenti, già messi in difficoltà dalla concorrenza dei siti che vendono musica on-line e dalla presenza di operatori che localizzano i loro centri di distribuzione nelle isole della Manica o in Svizzera, evitando così di pagare l’Iva sui dischi (la legge inglese lo consente, quando il valore unitario del prodotto risulta inferiore a 18 sterline).