Tra una manifestazione di piazza e un assalto alla Rolls-Royce di Carlo e Camilla, in Inghilterra è in corso la battaglia per il numero uno delle classifiche natalizie. La musica del silenzio di John Cage (sì, proprio la celeberrima provocazione intellettuale di "4’ 33" ") contro il pop consolatorio di X Factor. Madness, Orbital, Kooks, Billy Bragg, John Foxx, Imogen Heap, Anne Pigalle e tanti altri spalla a spalla con l’imbianchino Matt Cardle, ultimo vincitore del talent show ideato da Simon Cowell. I carbonari del progetto "benefit" Cage Against The Machine (il riferimento scaramantico è ai Rage Against The Machine, che l’anno scorso con l’antinatalizia "Killing in the name" mandarono al tappeto il singolo di X Factor) si sono dati appuntamento il 6 dicembre scorso ai Dean Street Studios di Londra, restando muti e immobili davanti a leggii e strumenti per tutta la durata del brano di Cage. E tra loro c’era anche un italiano, quel Charlie Rapino (vero nome Mallozzi) noto in Italia per la sua partecipazione alla scorsa edizione di Amici ma con un curriculum da far invidia ai migliori "music men" sulla piazza internazionale: dai successi italo house dei Rapino Brothers in combutta con il "fratello" Marco Sabiu agli hit di Kym Mazelle e Corona, dalla produzione di "Could it be magic" dei Take That ai remix per Kylie Minogue e Geri Halliwell, dalla scoperta di Gary Go alla stretta collaborazione con il Maestro Ennio Morricone, dall’A&R della Sony a quello della Decca (per cui ingaggiò Morrissey). "Avevo aderito alla campagna di Cage Against The Machine lanciata attraverso Facebook", racconta a Rockol da Londra, "anche perché concettualmente ‘4’33" ’ è la mia composizione preferita di sempre, insieme a ‘Metal machine music’ di Lou Reed: i due opposti, i due antipodi, il silenzio e il rumore. E’ stato il mio vecchio amico Eddy Temple-Morris, disc jockey di Xfm, a invitarmi a collaborare come coproduttore a fianco di Paul Hepworth e di Clive Langer. L’idea mi è piaciuta, ma io non la interpreto come un gesto polemico nei confronti di Simon Cowell e di X Factor. L’operazione è molto più profonda di quanto sembri: con ‘4’33" ’ la musica non è solo arte, diventa linguaggio". Chiuso l’impegno com Amici Rapino, 50 anni e origini parmigiane, è tornato nella capitale inglese dove vive da vent’anni, a lavorare come consulente per la Universal-Polydor. "Con Maria De Filippi sono rimasto in ottimi rapporti, è una imprenditrice intelligente e ha giustamente colmato un vuoto causato dalla grande debolezza dell'industria discografica. E' al sistema Italia che fatico a riadattarmi. Non mi ritrovo per niente, in quella che io chiamo ‘mediocrazia’, il concetto di eguaglianza livellato verso la mediocrità. Il fatto è che in Italia l’individualità viene repressa e l’ imprenditore passa automaticamente per ladro. Da noi il ’68 ha prodotto il cantautorato: e i cantautori, a parte quel genio di Gino Paoli, sono responsabili della distruzione della musica italiana. Ecco, credo di essere un personaggio troppo eccentrico per il panorama italiano". Difficile dargli torto: sono già un culto le elucubrazioni a ruota libera con cui intrattiene il pubblico su YouTube, parlando davanti alla macchinetta del caffè, dalla doccia e persino sulla tazza del water. E sono note le sue frasi celebri ("io la musica non la ascolto, la vedo"; "il rock oggi è diventato Perry Como, è diventato varietà") che gli attraggono fan e critiche in ugual misura. "Diciamoci la verità, chi meriterebbe di stare nella giuria di un talent show, a parte me, Claudio Cecchetto, il maestro Peppe Vessicchio e forse Mara Maionchi? Gli altri che hanno fatto, chi hanno scoperto?". Come si vede, la fiducia in se stesso non gli fa difetto: dote indispensabile per continuare a fare il talent scout: "Cercare talenti è quello che faccio da quando mi alzo la mattina a quando vado a dormire. Giro su MySpace, vado nei locali. Ormai se un artista funziona o no lo capisco dal nome. E un problema degli artisti italiani è che non vogliono mai cambiarsi il nome. Non capiscono di essere un brand. Non capiscono che la gente non compra la persona, compra un prodotto". Di lì certe sue esternazioni, che ad "Amici" hanno fatto discutere: "Tutti se ne stanno ancora lì a cercare il cantante dalla bella voce. A me, di quello, frega poco o niente. Non ho mai comprato un disco di David Bowie, di Marvin Gaye o dei Rolling Stones per la musica che facevano, ma per quello che erano e rappresentavano. Ero ancora un bambino e comprai il primo disco degli Stones perché lessi un articolo in cui dichiaravano di pisciare dove pareva a loro. Mica per la musica, che tutto sommato agli inizi era una brutta copia di quella dei dischi Chess. Perché scelgo di lavorare con un artista? Non lo so, il mio è un mestiere fatto di fiuto, di istinto, di orecchio. Non saprei spiegare come funziona, non applico teorie di marketing. E’ una gara a chi sbaglia di meno". Non ha preclusioni, quando si tratta di lavoro: e così passa con disinvoltura dal "Bocelli inglese" Russell Watson a cantautori raffinati come il giovane Jonathan Jeremiah. "Gli uomini della Sony, con Watson, volevano fare un disco di canzoni italiane, io li ho convinti a trasferire la produzione in Italia. Ho chiamato il M° Vessicchio, una persona di grande cultura con cui avevo familiarizzato durante le puntate di ‘Amici’, lui ha preparato un paio di arrangiamenti e agli inglesi è venuta giù la faccia. Il disco l’abbiamo fatto con la Sinfonietta del M° Luigi Lanzillotta che accompagna di solito anche Ennio Morricone, e lo abbiamo registrato al Forum di Marco Patrignani, con gli arrangiamenti di Vessicchio e del M° Serio. Andando direttamente in testa alle classifiche inglesi: alla faccia di chi dice che la musica italiana sul mercato internazionale non vende!" (ritenterà il colpo con l’accoppiata Morricone-Hayley Westenra, giovane e già molto affermata cantante pop-operistica neozelandese, la prossima primavera). E Jeremiah? "A me ricorda molto Cat Stevens, certo pop orchestrale alla Scott Walker. Qualcuno mi mandò il link al suo profilo Myspace e io mi innamorai subito del nome, della faccia, del pezzo. Vedendolo dal vivo a Londra ho provato la stessa sensazione di quando vidi per la prima volta Jackson Browne. E’ molto giovane, ha 23 anni, è bello e con un’immagine un po' maledetta, molto bohémien. E poi ha un sacco di belle ragazze al seguito…. Stavo lavorando per la Decca al progetto di Morrissey, dovevo andare per lavoro a Los Angeles: ricordo che scorrazzavo con una Mustang Convertible sull’autostrada per Santa Monica e non ascoltavo altro che i suoi demo. Cercai di scritturarlo alla Decca, ma non se ne fece niente. Da lì l’ho portato alla Island". Un’altra sua recente scoperta sono le Pierces, due sorelle dell’Alabama con anni di gavetta alle spalle (una delle due, Allison, ha cantato sul debutto solista di Ryan Adams, "Heartbreaker"). "Sono un po’ ossessionato dai gruppi con due donne, tipo ABBA o The Mamas and The Papas…E’ stato il mio amico Guy Berryman dei Coldplay a produrre il disco, praticamente in casa: con il resto del gruppo, senza Chris Martin ma con Albert Hammond degli Strokes alla chitarra. I pezzi mi piacevano molto, così ho deciso di buttarmi: il primo singolo è una bomba, ricorda la Stevie Nicks dei bei tempi. Anche quello è un prodotto indirizzato alla gente che ancora compra i dischi, a chi ha una certa età. Oggi i ragazzi, lo sappiamo, hanno altre priorità. La musica non ha più la rilevanza, sul piano del linguaggio, che aveva quando eravamo giovani noi. Dylan e Lennon erano dei modelli di riferimento, ci riconoscevamo in quello che dicevano. Il tutto è durato fino al punk. Poi c’è stata l’inerzia che ha prodotto Michael Jackson". Eppure Charlie è uno dei pochi a professare ancora ottimismo nel futuro. "Speravo in un ricambio generazionale che poi non si è completato. Siamo ancora fermi al vecchio concetto di discografia, mentre oggi la musica è in mano alla Apple, a Google e ad Amazon: chi controlla la distribuzione, chi sta di guardia al cancello, controlla il mercato. La nuova generazione dei discografici dovremmo attingerla da lì, invece di affidarci a chi pretende di saper di musica. Ai Conservatori, alle istituzioni musicali, ai soliti cattedratici incompetenti che hanno in mano i fondi e il potere. Resto ottimista perché gli artisti chiamano ancora gente come me per assemblargli i dischi: evidentemente chi ha meno di 35 anni non ha nozione di come si faccia. Oggi non ci sono più i Moroder e i Phil Spector, la produzione artistica uno se la può fare anche a casa sua con GarageBand. Ma ci vuole sempre qualcuno capace di organizzare, di miscelare tutti gli ingredienti. E’ un lavoro artigianale, e io ho un po’ la fortuna del maniscalco. Nel momento in cui un mestiere non lo fa più nessuno, diventi automaticamente ricercato sul mercato". Lo dice ridendosela di gusto, con una risata molto emiliana. Londinese sì, ma fino a un certo punto.