Un vecchio argomento di dibattito riemerge, in tempi di crisi, nel Regno Unito: perché anche i negozi di dischi, alla stregua dei ristoranti, dei bar e degli studi professionali, devono pagare per far ascoltare musica nell'ambiente di lavoro, finendo per versare due volte denaro nelle casse delle case discografiche nel momento in cui le aiutano a vendere i prodotti da loro regolarmente acquistati? Succede in Italia (dove il consorzio di collecting SCF ha sottoscritto nel 2006 accordi per il pagamento dei diritti connessi con Fnac, Feltrinelli e Mondadori Retail), e succede anche in Inghilterra. Paul Quirk, presidente della Entertainment Retail Association (ERA) non ne è però affatto contento: "Queste tariffe di licenza imposte sui negozi di dischi sono inique e a mio parere andrebbero abolite", ha ribadito in questi giorni durante una riunione dell'associazione. "Organismi industriali come PRS e PPL", ha osservato, "continuano a inseguire i rivenditori imponendogli tariffe di licenza per riprodurre musica, promuoverla e venderla nel loro interesse. Non siamo il nemico. Siamo lo strumento attraverso cui fanno profitto". Nel suo intervento, Quirk si è lamentato della lentezza con cui il governo sta implementando le misure antipirateria contenute nel Digital Economy Act, ma anche della scarsa considerazione in cui - a dispetto della sua persistenze predominanza - viene tenuto il mercato dei supporti "fisici": "E' uno strano ribaltamento delle vecchie regole", ha osservato: "il 'fisico' rappresenta ancora circa i tre quarti del mercato degli album, eppure nei dibattiti all'interno dell'industria musicale viene raramente menzionato".