Il modello freemium non paga ancora. Così alcuni analisti di settore interpretano i dati di bilancio 2010 appena pubblicati da Spotify, il più in vista tra i servizi di streaming che abbinano un'offerta gratuita "pagata" dalle inserzioni pubblicitarie ad opzioni a pagamento che consentono l'accesso offline e mobile senza interruzioni. Il bilancio mostra infatti un fatturato in crescita esponenziale, da 11,3 a 63,2 milioni di sterline, ma un deficit a sua volta gonfiato, da 16,6 a 26,5 milioni di sterline, a causa soprattutto delle royalty che la società svedese paga alle case discografiche per poterne diffondere in streaming i cataloghi. Interessante la suddivisione delle voci di introito: la parte del leone la fanno i canoni di abbonamento, cresciuti in un anno da 6,8 a 45,1 milioni di sterline, mentre i ricavi pubblicitari passano da 4,5 a 28,3 milioni rappresentando oggi il 29 per cento del totale. Dal momento che il 90 per cento circa degli utenti registrati al servizio lo usa ancora a titolo gratuito, il 71 per cento del fatturato incassato dalla società proviene da appena il 10 per cento dei suoi utenti (quelli a pagamento). Va anche osservato che i dati (disponibili solo in forma aggregata, e non per area geografica) sono in certa misura superati, dal momento che dal 31 dicembre scorso ad oggi molte cose sono cambiate per Spotify: nelle scorse settimane la Web company ha annunciato una completa integrazione con Facebook e, grazie al suo lancio negli Stati Uniti avvenuto a luglio, ha già più che raddoppiato la sua base utenti portandola a circa 2 milioni di persone.