In un lungo articolo pubblicato sul sito della Reuters, la giornalista Diane Bartz sostiene che la decisione della Commissione Europea sulla fusione tra le case discografiche Universal Music ed EMI verrà comunicata non l'8 agosto (come precedentemente annunciato) ma entro il 6 settembre. Dando voce alle opinioni favorevoli e contrarie (notoriamente espresse dalla concorrente Warner Music e da associazioni di etichette indipendenti come Impala e Merlin) al merger , Bartz riporta anche le valutazioni di diversi esperti in materia di antitrust chiedendosi in che misura un'operazione destinata a concentrare in una sola mano il 40 per cento del mercato danneggerà la concorrenza e i consumatori. "Dieci anni fa le etichette discografiche avevano potere, oggi non ne hanno più. Se la Federal Trade Commission bloccherà l'accordo significherà solo che non capisce il mercato" trancia corto Daniel Sokol, docente specializzato in antitrust presso lo University of Florida Levin College of Law. Ma diversi suoi colleghi, e alcuni rappresentanti di associazioni dei consumatori, non la pensano come lui: "Se controlli una quota così grande dei contenuti più appetibili, puoi determinare la sorte dei nuovi modelli di business digitale semplicemente non concedendo il tuo repertorio", osserva ad esempio Mark Cooper della Consumer Federation of America. Tesi ovviamente rigettata da Universal che nelle parole del portavoce Peter Lofrumento sostiene che la società "ha concesso il suo catalogo a più servizi di musica digitale di qualunque altra casa discografica e continuerà a farlo a beneficio dei suoi artisti, dei consumatori e dell'industria in generale". In sintesi, le previsioni sull'esito del merger , di qua e di là dell'oceano, sono tuttora molto discordanti: sul piatto della bilancia finiscono, da un lato, la capacità di Warner e degli altri oppositori di dimostrare i pericoli insiti nella concentrazione di mercato; dall'altro la possibilità di Universal di dimostrare che oggi prezzi e modelli di fruizione della musica sono condizionati più dalla pirateria e dalle decisioni dei grandi retailer (iTunes, Amazon) che dalla volontà delle major discografiche.