Che cosa succederà, se - dopo il sì della Nuova Zelanda - le autorità antitrust americane ed europee dovessero invece respingere la richiesta di Universal Music di acquistare il patrimonio discografico della EMI? Sondate pazientemente, e nell'arco di mesi, un pugno di fonti apparentemente bene informate sui fatti, il sito Digital Music News disegna uno scenario in cui la major leader di mercato, pur di mettere le mani sulla casa discografica britannica, si sarebbe sottoposta a un rischio notevole accettando, in sostanza, di garantire a Citigroup (il venditore) la somma pattuita anche nel caso in cui l'operazione non dovesse andare a buon fine. Più precisamente, di pagare a titolo di "assicurazione" la differenza, 700 milioni di dollari, tra il prezzo concordato per la vendita (1,9 miliardi di dollari) e quello, 1,2 miliardi di dollari, proposto dal secondo miglior offerente che a quel punto potrebbe tornare in gioco. Tale "second runner" sarebbe la Warner Music di Len Blavatnik: un motivo in più per spiegare le energie che l'ex numero uno Warner, Edgar Bronfman Jr., sta spendendo nel contrastare la fusione, e la sua battagliera testimonianza la settimana scorsa a Washington durante l'udienza che ha visto sfilare dinanzi alla sottocommissione senatoriale antitrust anche il presidente di Universal Lucian Grainge, l'amministratore delegato di EMI Roger Faxon, l'ad di Live Nation Irving Azoff e il discografico indipendente Martin Mills (Beggars Group), oltre alla numero uno dell'organizzazione no profit Public Knowledge Gigi Sohn. Ma perché Universal si sottoporrebbe al rischio di un tale salasso economico? Alcuni insider ritengono che il tutto si spieghi con la guerra personale a colpi di quote di mercato che lo stesso Grainge ha ingaggiato con il suo predecessore, attuale boss di Sony Music e sfidante numero uno Doug Morris.