Fanno discutere, anche sui social network e sui siti italiani (Il Fatto Quotidiano vi ha dedicato ieri un articolo a firma di Marco Schiaffino nella sezione "Tecnologia"), i risultati di uno studio "confidenziale" commissionato all'ente di ricerche NPD dalla RIAA (l'associazione dei discografici statunitensi) da cui risulterebbe che non è il peer-to-peer la causa principale della pirateria, e in ultima analisi della crisi del mercato discografico. L'indagine, intercettata dal blog TorrentFreak che ne ha pubblicato uno stralcio la settimana scorsa (poi ripreso anche da testate come Music Week), sostiene che nel corso del 2011 solo il 15 per cento della musica consumata negli Stati Uniti è stato acquisito attraverso piattaforme di file sharing: se è vero che i consumatori americani si procurano il 65 per cento della musica che ascoltano senza pagarla, risulterebbe anche che il modo prevalente di copiarla (27 per cento) rimane la tradizionale duplicazione/masterizzazione di un cd, mentre per il 19 per cento si ricorre allo scambio fisico dei file contenuti negli hard drive del computer per mezzo di chiavette Usb. I download a pagamento varrebbero la stessa percentuale, mentre il 16 per cento della musica consumata si otterrebbe (sempre negli Usa) acquistando Cd, e il 4 per cento appena attingendo a digital locker non autorizzati dai titolari dei diritti come il famigerato MegaUpload. La sorprendente conclusione, scrive TorrentFreak, è che "oltre il 70 % della musica non pagata proviene da scambi effettuati offline". Mentre il grafico pubblicato dal blog è contrassegnato come "confidenziale": "Il che", secondo TorrentFreak, "suggerisce che la RIAA non vuole che questi dati siano di dominio pubblico. Cosa forse comprensibile, dal momento che queste cifre decisamente non vanno a sostegno della sua crociata contro la pirateria online".