Si infoltisce la pattuglia degli artisti-discografici, giustamente desiderosi di tenere sotto controllo i propri destini artistici ma anche, a volte, di dare una chance a chi resta immeritatamente tagliato fuori dai giochi di mercato. Al mazzo di etichette autogestite, che annovera marchi storici come la Real World di Peter Gabriel e la Righteous Babe di Ani DiFranco (tra gli esempi più recenti: la ISO di David Bowie, la Mighty Sound di Michelle Shocked e, in Italia, la Due Parole di Carmen Consoli) si aggiunge ora la Artists’ Network dell’ex Eurythmics Dave Stewart, uno che come produttore artistico, talent scout ed anche business man a tutto campo ha già dato buona prova di sé in passato. La sua neonata impresa discografica, che avrà ramificazioni multimediali (cinema, TV, video, libri), ha già messo sotto contratto il monumento reggae Jimmy Cliff, tanto per far capire quale sarà la sua filosofia: recuperare al mercato artisti estromessi dagli ingranaggi della produzione di massa, in quanto ritenuti poco o niente redditizi dalle major multinazionali che ne hanno in mano le sorti. <br> “Le grandi case discografiche sono come McDonald’s”, ha spiegato Stewart nel corso di una recente intervista radiofonica con la BBC. “Sanno come vendere gli hamburger, ma in giro ci sono molti artisti che non si incastrano in quel modo di operare”. “Tutto è cambiato più o meno a metà degli anni ‘80”, ha aggiunto il musicista inglese, rievocando l’epoca d’oro degli Eurythmics. “Nell’86, mentre io e Annie (Lennox) stavamo riscuotendo grande successo, al vertice della nostra casa discografica americana è arrivato questo tipo proveniente dalla Hertz, la società di autonoleggi: era un segnale dei tempi a venire, una faccia aziendalista messa di fronte ad un business creativo”.