Tanto tuonò che piovve, dice il proverbio popolare. Nessuna sorpresa, dunque, che dopo le scintille scoccate in tribunale tra Courtney Love e la Universal, e tra le Dixie Chicks e la Sony (poi riappacificatesi, vedi news), i politici americani abbiano preso la palla al balzo per verificare se davvero le case discografiche si producano in giochi di prestigio contabili per truffare i loro artisti: tanto più che i bilanci truccati, dopo gli scandali Enron e Worldcom, sono diventati argomento di scottante attualità nei giornali e nel dibattito pubblico USA. <br> Evidentemente poco amata dall’establishment politico anche negli Stati Uniti, dove pure i discografici rappresentano una “lobby” dal potere niente affatto trascurabile, l’industria musicale è dunque di nuovo nel mirino di Washington. Ed è ancora una volta il senatore democratico Kevin Murray (lo stesso che vuole abolire i vincoli dei contratti discografici a lungo termine, vedi news)a farsi paladino della nuova battaglia (questa volta in compagnia di Martha Escutia, presidente della commissione di giustizia senatoriale) che porterà di fronte al parlamento USA, il 23 luglio prossimo, i rappresentanti delle maggiori case discografiche, accusati dai propri artisti di occultamento indebito delle somme loro dovute sotto forma di royalty sulle vendite dei dischi: quello che il governo dice di voler evitare è che gli artisti, soprattutto quelli più deboli economicamente, debbano ricorrere ai (costosi) servizi di avvocati e di società di revisione per verificare la correttezza del comportamento delle etichette che pubblicano i loro dischi, finendo spesso per accettare somme inferiori a quelle a cui hanno diritto pur di non trascinare le vertenze per anni in tribunale.