Il vezzo, o vizio – tutto italiano – di pubblicare dischi (compresi, ultimamente, molti classici del rock) in allegato a giornali e riviste per trovare nuovi sbocchi di mercato ha trovato un fiero oppositore ufficiale nel carismatico cantautore di Los Angeles: uno che sull’uso “improprio” delle sue musiche e della sua arte (leggi spot e sponsorizzazioni) ha sempre avuto da ridire, opponendo un netto rifiuto, per esempio, alle ripetute lusinghe dei pubblicitari. Venuto a conoscenza del fatto che lo scorso anno, qui da noi, il suo “Rain dogs” (etichetta Island, anno 1985) venne distribuito in edicola in allegato ad un quotidiano, a prezzo fortemente ridotto e con modifiche alla grafica originale di copertina, Tom Waits non ci ha pensato due volte a farsi vivo con la sua ex casa discografica, la Universal, per esprimere le sue sentite rimostranze: tanto da spingere la major a pubblicare una pagina di scuse ufficiali sul numero di aprile del mensile specializzato “Musica e Dischi”. <br> Contattato da Rockol per tramite della Spingo! (l’agenzia che promuove in Italia la nuova etichetta di Waits, la Anti), il leggendario musicista ha accettato di esprimere più in dettaglio il suo pensiero: “Per me – scrive Waits nel suo informale “statement” sull’argomento – cambiare l’immagine di copertina, eliminare i crediti, mettere il logo del giornale al posto di quello dell’etichetta e vendere il disco ad un quarto, forse, del prezzo originario al dettaglio come allegato ad un altro prodotto rappresenta una chiara violazione di contratto. Un artista consegna alla casa discografica un prodotto finito, completo di registrazione e copertina. E, nella maggior parte dei casi, destina il 25 % delle sue royalty alla copertura dei costi del packaging…Poi, saltano fuori contratti come questo: e all’artista cosa spetta?”. Ma al di là dell’aspetto economico, a Waits brucia il modo in cui la sua opera e quella dei suoi colleghi viene manipolata: “A quando una copia di ‘Sketches of Spain’ attaccata ad una bottiglia di balsamo per capelli?”, si domanda. “O un ‘Blonde on blonde’ che penzola da un reggipetto nero? Sono i giornali che offrono un disco, o è il disco ad offrirci una rivista in omaggio? Si tratta di un puro strumento di marketing che banalizza la musica e che dà la sensazione di una disperata regalìa”. <br> Tra i primi a fare il grande salto all’indietro dal mondo delle major a quello indipendente, Waits non risparmia colpi all’establishment musicale: “Nelle strette in cui si trovano oggi le case discografiche, con le questioni del downloading e della proprietà intellettuale che penzolano sulle nostre teste come una spada di Damocle, non è sorprendente che le corporation mostrino un sacro terrore”, ammette. Ma il problema, secondo lui, è che nella disperata ricerca di smuovere il mercato, le grandi corporation operano ormai come “cartelli economici che tengono in pugno il potere di un paese: mentre gli artisti sono in fila per essere spremuti come un grande dentifricio, fino al totale esaurimento”. L’autore di “Rain dogs” echeggia le preoccupazioni di molti altri colleghi (soprattutto americani) nel sottolineare che “con le radio, le TV, le sale da concerto e le case discografiche nelle mani di pochi, gli artisti oggi vengono svenduti in massa, all’incanto. Senza che noi lo si sappia, i contratti vengono stipulati e le grosse società si pavimentano la via con il nostro lavoro: noi, per loro, non siamo nient’altro che la ghiaia che serve a coprire questa strada. Mi rendo conto di essere in minoranza – conclude Waits – ma non voglio venire avvolto in una bandiera. Non voglio essere ricoperto di marchi commerciali e di slogan, o trasformarmi in un uomo-azienda. Se in Italia esiste un ministero della Cultura, forse questa è una questione di cui dovrebbe occuparsi”. Si vede proprio che non vive da queste parti...