Da Malmö, dove si trovava l'altro ieri (6 novembre) per un concerto, Billy Bragg è intervenuto su uno dei temi caldi di questi ultimi mesi, le royalty che i servizi di streaming come Spotify pagano agli artisti, invitandoli a cambiare il bersaglio delle loro rivendicazioni. "Qui in Svezia", ha scritto il cantautore di Barking in una lettera aperta, "gli artisti hanno capito che il problema riguarda le major discografiche più che il servizio di streaming, e si stanno muovendo per ottenere royalty che riflettano meglio i costi connessi alla produzione e distribuzione digitale. Anche i musicisti britannici farebbero bene a prendere esempio". La posizione di Bragg si distingue dunque da quella di colleghi come Thom Yorke (Radiohead), Brian Molko (Placebo) o i Foals, estremamente critici nei confronti di Spotify: il problema, a suo dire, sono i contratti firmati prima dell'avvento dello streaming, anche se - come ricorda Music Week - etichette indipendenti come il Beggars Group hanno già provveduto ad adeguare le tariffe, riconoscendo agli artisti il 50 per cento degli incassi da streaming sulla base di un contratto di licenza anziché di vendita e distribuzione; lo stesso trattamento è stato garantito anche a un pop star come Robbie Williams, grazie all'accordo che la sua etichetta Farrell Music ha siglato con la Island del gruppo Universal. "Da tempo ritengo che l'inveire contro Spotify sia utile come lo sarebbe stato protestare contro il Sony Walkman nei primi anni '80", dice Bragg. "Gli appassionati di musica ricorrono sempre più spesso allo streaming e noi, come artisti, dobbiamo adattarci al loro comportamenti invece di insistere su un modo particolare di ascoltare la musica. Il problema, rispetto al modello di business dello streaming, è che la maggior parte degli artisti hanno ancora contratti che risalgono all'era analogica, quando le case discografiche si sobbarcavano tutto l'impegno della produzione e distribuzione fisica pagando in media agli artisti royalty ridotte, tra l'8 e il 15 %. Quelle percentuali, trasferite nell'era digitale, spiegano perché gli artisti ricevano somme così misere da Spotify. Se i tassi fossero così scarsi, i detentori dei diritti - cioè le major discografiche - se ne lamenterebbero. Il fatto che continuino a firmare accordi significa che ci devono guadagnare".