Ancora più dell'americana RIAA, l'associazione dei discografici britannici BPI sembra aver preso sul serio l'impegno a contrastare sistematicamente la proliferazione in rete di musica "piratata": tanto che venerdì scorso, 15 novembre, ha infranto la barriera dei 50 milioni di richieste di rimozione dal motore di ricerca di Google di link a siti e contenuti illegali. Il numero record è stato raggiunto in meno di due anni e mezzo, dal momento che la prima azione era avvenuta nel giugno del 2011. Ma, secondo la stessa British Phonographic Industry, non ha affatto risolto il problema: "BPI", spiega una nota emessa dall'associazione, "ha passato in rassegna a cominciare dal 3 novembre 2013 i risultati di Google alla ricerca di download in formato mp3 degli album e dei singoli Top 20 delle classifiche ufficiali. Questa indagine ha rivelato che in media il 77 % dei risultati di ricerca per i singoli e il 64 % per gli album, tra quelli che compaiono nella prima pagina, indirizzano a siti illegali". "Google", accusa il presidente BPI Geoff Taylor, "porta i consumatori in un oscuro abisso di siti non autorizzati dove gli stessi possono infrangere la legge o scaricare malware o contenuti inappropriati, dal momento che in modo persistente classifica tali siti al di sopra di servizi legali e fidati ogni volta che essi cercano musica di scaricare". La società di Mountain View, sostiene Taylor, "sa bene, sulla base dei milioni di notifiche e delle sentenze di tribunale, quali siti siano illegali. E tuttavia chiude un occhio di fronte a tali informazioni scegliendo di continuare a indirizzare traffico e ricavi verso il mercato nero online, piuttosto che verso i rivenditori legali. E' arrivato il momento che Google sia tenuto agli stessi standard di comportamento di chiunque altro. Dispone di un potere enorme, come guardiano e porta di ingresso a Internet. E se non accetta di comportarsi eticamente e responsabilmente, è ora che il governo e le autorità di garanzia e controllo del mercato prendano dei provvedimenti".