Pressati nell’angolo dalle major musicali, i gestori del più famoso network “fuorilegge” di file sharing stanno cercando da qualche tempo di saltare oltre le corde del ring, proponendosi nella veste inedita di collaboratori dell’industria discografica. <br> La società titolare del popolarissimo software che permette lo scambio gratuito di musica in rete, Sharman Networks, è infatti tra i sostenitori principali (insieme al partner commercial Altnet) di una proposta formulata dalla Distributed Computing Industry Assn., un’organizzazione di categoria a cui aderiscono diversi servizi peer-to-peer. Se le case discografiche si convincessero a rendere disponibili sulle reti peer-to-peer i loro cataloghi musicali in forma protetta da “lucchetti” elettronici, e a caricare una tariffa equa sui downloading (50 centesimi di dollari a canzone, la metà di quanto richiesto oggi da negozi on-line come quello di Apple), è la tesi dell’associazione, si genererebbe da qui a tre anni un giro d’affari dell’ordine di 900 milioni di dollari in grado di compensare adeguatamente etichette, artisti, autori ed editori musicali per l’uso della loro musica in rete. <br> Secondo Nikki Hemming, amministratore delegato di Sharman Networks, il sistema di vendita diretta di musica ai consumatori attraverso le reti peer-to-peer rappresenta la “soluzione più logica per arginare la violazione dei copyright su Internet”. Ma per funzionare, e generare davvero i fatturati stimati dall’associazione, il nuovo modello di business dovrebbe assicurarsi il consenso e la collaborazione non solo delle case discografiche e degli artisti, ma anche di tutti gli altri gestori di networks di file sharing, degli Internet service providers a cui questi si appoggiano e degli utenti dei servizi stessi, ciò che numerosi osservatori ritengono assai poco probabile: gli stessi ISP, che dovrebbero fornire all’industria musicale le informazioni necessarie a rintracciare ogni singolo downloading avvenuto in rete (per poi provvedere al pagamento dei titolari dei diritti), non dispongono spesso di mezzi tecnologici adeguati, e potrebbero anche non avere interesse a farsi coinvolgere; e sembra difficile convincere i clienti dei sistemi peer-to-peer, che della circolazione gratuita della musica in rete hanno fatto una bandiera ideologica, a mutare improvvisamente atteggiamento. Il rischio, insomma, è che una volta che il meccanismo si sia messo in moto la comunità on-line decida di disertare in massa un network come KaZaA per accasarsi presso altri servizi che continuano a consentire lo scambio libero e gratuito di materiale audio e video. <br> Anche dal mondo accademico americano, intanto, arrivano proposte per cercare di trasformare il file sharing in una fonte di reddito per l’industria musicale: Neil W. Netanel, professore di legge all’Università del Texas, e William Fisher III, che insegna la stessa materia ad Harvard, hanno suggerito di remunerare le case discografiche attingendo ad un fondo che andrebbe alimentato tassando i servizi Internet e i produttori di apparecchi digitali di riproduzione. Ma questa ipotesi piace ancora meno ai discografici, che incasserebbero una cifra “flat”, fissa, indipendentemente dal traffico Internet e dal numero di download che avvengono in rete.