L'ha attraversata tutta, Marco Sorrentino, la "filiera" della musica. Le radio libere, a Novara, negli anni Settanta (con Roberto De Luca oggi a capo di Live Nation), la tv (consulente musicale di programmi come "Fresco Fresco"), i negozi di dischi (La Talpa, specializzato nella vendita per corrispondenza di vinili rari e da collezione), cooperative di animazione musicale nelle scuole elementari e materne (ne è nato anche un libro, "Musica maestro"), rack jobbing per la grande distribuzione (Mach 5, "un'esperienza importantissima e illuminante, in un momento in cui l'Italia aveva decenni di ritardo rispetto ai Paesi più avanzati"), fino alla discografia multinazionale (MCA, ai tempi in cui apriva in Italia sotto la guida di Piero La Falce, e poi Universal/PolyGram). "Nelle case discografiche in cui ho lavorato ho fatto un po' di tutto", ricorda: "il direttore vendite, il direttore commerciale, il direttore marketing e dello strategic marketing, infine il direttore generale. Non ho mai fatto l'A&R ma ho sempre lavorato a stretto contatto con gli artisti. Devo molto a La Falce, che mi volle in MCA e mi ha insegnato tantissimo. Negli ultimi anni '90, però, le nostre visioni sul futuro diventavano sempre più divergenti. Avevo capito che bisogna diventare più artist-oriented e che la discografia avrebbe avuto di lì a poco enormi problemi: e non mi sembrava, allora, che a capo delle grandi aziende discografiche ci fosse qualche manager preparato al cambiamento e alla rivoluzione digitale. Avevo anche percepito che per me in azienda non ci sarebbe più stato posto, e a quel punto anticipai i tempi. Con la buonuscita ho vissuto due anni bellissimi, girando il mondo e capendo come andavano le cose. Andai a trovare il mio amico Paul McGuinness, allora manager degli U2, e al Midem feci una lunga chiacchierata con Chris Blackwell. Insomma, un po' per volta mi sono fatto le ossa". Fino al grande balzo che ha segnato gli ultimi quattordici anni della vita professionale: "Avevo approfondito la conoscenza di Jovanotti che allora, nel 2000, aveva appena esautorato il suo manager, Roberto Arcadu. Qualcuno lo dava per finito, e invece io ero convinto che quella fosse solo una fase difficile, non solo dal punto di vista artistico, della sua vita. Ci siamo testati per un anno, un anno e mezzo, e poi abbiamo deciso di lavorare insieme. Da lì siamo ripartiti facendo tabula rasa, e dopo le prove generali con 'Roma' del Collettivo Soleluna gli presentai Canova. Un incontro abbastanza burrascoso, perché Michele è un bravissimo produttore ma non ha un carattere facile. Non si presero bene, all'inizio, ma sappiamo com'è andata finire: 'Buon sangue' fu il primo capitolo della nuova vita artistica di Lorenzo, che da allora, con ogni nuovo disco e nuovo tour, ha riscosso sempre più successo. A dispetto della crisi". Come sintetizzerebbe il suo ruolo di manager di Jovanotti, Sorrentino? "Faccio un po' di tutto, tranne scrivere canzoni...In una vecchia intervista, alla domanda di che lavoro facessi, risposi che ero il socio di Lorenzo. Lo sono insieme a Maurizio Salvadori, che aveva ceduto le sue quote in Trident a Live Nation; con me rifondò l'azienda che nei primi due anni, per vincoli contrattuali, dovemmo chiamare PM. Avevamo solo lui, come cliente, mentre oggi seguiamo anche Roberto Cacciapaglia. E ci dividiamo i compiti con equilibrio: io seguo il day-by-day, la parte artistica, i rapporti contrattuali con Universal. Mentre Maurizio, che io ritengo il numero uno nel campo del live grazie anche a un'esperienza ultratrentennale, ha gestito dal punto di vista economico e organizzativo i tour di tutti gli artisti con cui abbiamo lavorato nel tempo, da Tiziano Ferro a Max Pezzali, da Eros Ramazzotti a Syria. Siamo anche un'agenzia live, ma lavoriamo in modo diverso e oculato: non ci vediamo come un competitor di Live Nation o di F&P". Sicuramente interessante, rapportarsi a un artista vulcanico e multitasking come Jovanotti. Anche difficile? "Magari un po' più complicato, ma anche più entusiasmante. Lavorare con lui per me è stato il coronamento di un sogno: l'ho sempre ammirato, per me ha la testa di un vero artista internazionale e non credo che potrei fare il manager di qualcun altro. Non mi sono inventato il lavoro guardando chi fosse libero sulla piazza. Per questo rimango sembre abbastanza critico nei confronti di certi miei colleghi: per me l'unico che sa fare davvero bene questo mestiere, in Italia, è Claudio Maioli, che non a caso lavora da tantissimi anni con Luciano Ligabue. Non è una professione facile, la nostra, perché bisogna essere in grande sintonia con l'artista". Eppure la categoria ha confini incerti, non è professionalmente regolamentata, e spesso è promiscua ad altre professioni. "Proprio così. E mi sembra una cosa aberrante, che i commercialisti e gli avvocati si improvvisino manager", dice Sorrentino. "Il manager ha bisogno dell'avvocato, così com'è vero il contrario. Ma non può sostituirsi a lui, questa è un'eccezione tutta italiana. Neanche un discografico può diventare automaticamente un manager: prima di tutto gli mancano le competenze necessarie sulla parte live, da cui oggi arriva la fonte principale di guadagno degli artisti. E un conto è lavorare in una struttura che, come la Sony o la Universal, si confronta con 30 o 40 artisti, un altro avere a che fare con un unico artista dal mattino alla sera. Sono due lavori completamente diversi. Per Lorenzo abbiamo messo insieme una squadra di tre o quattro persone che per lui fa più o meno tutto. Il mio giudizio sulla Universal è molto positivo, anche perché conosco la metà delle persone dai tempi in cui ci lavoravo io, ma il 90 % dell'attività di marketing su Lorenzo la seguiamo noi in prima persona. L'importante è circondarsi di gente giovane, come io e Jovanotti abbiamo cercato di fare: sono i nostri giovani collaboratori a darci linfa nuova, entusiasmo e adrenalina".