Lo scorso mese di novembre Billy Bragg aveva preso pubblicamente le parti di Spotify sostenendo che sono le case discografiche, e non il servizio di streaming, da biasimare per l'entità ridotta delle royalty che arrivano in tasca agli artisti. E in un'intervista concessa a Billboard il managing director US della società, Ken Parks, torna ora sull'argomento avvertendo che le etichette, e non Spotify, applicano condizioni disparate ai loro musicisti determinando di fatto una forte disuguaglianza di trattamento. Ribadito che la Web company riconosce un tasso percentuale di royalty identico a major e indipendenti, Parks sostiene che la società non vuole che "un artista sotto contratto con l'etichetta x si senta defraudato perché viene pagato meno per gli sfruttamenti su Spotify. Non sappiamo molto dei singoli contratti, ma da quel che abbiamo capito i pagamenti agli artisti relativamente agli streaming spaziano da un estremo all'alto. Credo che nel lungo termine una situazione del genere non sia sostenibile". "Nessuno dovrebbe avvantaggiarsi del fatto di avere un avvocato più abile degli altri", ha aggiunto l'md della filiale statunitense della società. "Certo, fa parte del modo in cui spesso funziona il business, ma non dovrebbero esserci comunque differenze radicali tra quanto paga il Beggars Group, ad esempio, o l'etichetta X. Non si tratta di una cosa raccomandabile, in ogni caso". La citazione del Beggars Group non è casuale, dal momento che il gruppo indipendente guidato da Martin Mills (che ha sotto contratto tra gli altri la best seller assoluta degli ultimi anni Adele) è uno dei pochi a trasferire il 50 % delle somme incassate sullo streaming ai suoi artisti; la maggior parte dei concorrenti versa a manager e artisti solo il 10-15 % dell'incasso.