Come tutti i settori industriali emergenti, maturi o in declino, anche la discografia multinazionale guarda ad Oriente. L'ambizione del momento, per imprese che nel mondo occidentale continuano a tagliare costi, strutture ed organici, è di cavalcare la tigre cinese: è il caso della leader di mercato Universal Music, per esempio, che per il 2004 ha in programma di rafforzare, e di molto, la sua presenza nel paese convertitosi da poco al capitalismo (mentre assottiglia i suoi contingenti nel resto del mondo). <br> La major di casa Vivendi, che già aveva un piccolo ufficio a Shanghai, ne aprirà altri due a Pechino e a Guangzhou, raddoppiando o triplicando i suoi uomini sul territorio (che oggi ammontano ad appena una decina di persone). Le vendite di dischi, nel paese, sono ancora al 90 per cento in mano ai “pirati” ma, ha spiegato il presidente di Universal per il Sud Est asiatico Harry Hui, “non si risolve il problema standosene a casa, e in Cina esiste oggi anche un mercato legittimo”. Il giro d'affari che quest'ultimo sviluppa attualmente, circa 125 milioni di dollari all'anno, rappresenta ancora una frazione infinitesimale del fatturato mondiale dell'industria discografica (32 miliardi di dollari), ma il numero impressionante di potenziali consumatori e gli enormi margini di sviluppo attirano irresistibilmente l'attenzione di imprese che altrove faticano a far quadrare i bilanci: già oggi altre major, come EMI, Sony e Warner, sono presenti in Cina, per quanto a ranghi ridotti e con l'obbligo di delegare lo smercio dei loro prodotti (e una quota rilevante dei profitti potenziali) a distributori locali. Universal sarà la prima a raddoppiare o triplicare gli investimenti, non solo in termini di personale, ma anche in artisti e in promozione: dai quartier generali del Sud Est asiatico è partita la consegna di mettere sotto contratto artisti locali e spingere le vendite di quelli stranieri, cominciando da quelli provenienti dalle vicine aree di Taiwan e Hong Kong.