Quello che esce dalla porta rientra dalla finestra, si potrebbe dire. Perché nelle statistiche degli ultimi giorni riguardo la fruizione online del repertorio di Taylor Swift ci sono dei segnali che parrebbero convalidare la profezia di Daniel Ek, fondatore di Spotify, che aveva avvertito la stella del country pop americano dopo il gran rifiuto al rendere disponibile il suo catalogo sulla popolare piattaforma di streaming. Spotify paga poco, ma paga - fu, in nuce, il discorso di Ek: gli altri no. E tra "gli altri", il manager svedese, metteva anche Youtube, che ha stretto sì - e da parecchio tempo - un accordo con le major per la ripartizione dei diritti d'autore, e che col nuovo servizio Music Key scenderà in diretta concorrenza con Spotify - e Deezer, e Beats - sul fronte dello streaming on demand, ma che sulla propria piattaforma tradizionale di video sharing, ancora oggi, ospita milioni di tracce - caricate da utenti sotto forma di lyric video o video-tributi - non autorizzate. E qui arrivano a pungere i dati riferiti nelle ultime ore dalla Nielsen, società che monitora il mercato discografico americano: nelle ore immediatamente successive alla richiesta della Big Machine Records, etichetta della Swift, di rimuovere il catalogo della cantante da Spotify, le visite alle pagine gestite da utenti di Youtube e Vevo che contengano brani della voce di "1989" si sono impennate dai quotidiani 12 milioni e mezzo a oltre 24 milioni. In pratica, il doppio. La disponibilità - gratuita - del repertorio della Swift sul Web non ha inciso negativamente sulla prestazione fatta registrare sul mercato USA dal suo nuovo album, "1989", che ha comunque smerciato la bellezza di due milioni di unità in solo tre settimane, vedendo un milione e duecentomila unità uscire dai negozi nei soli primi sette giorni di permanenza sul mercato. Dato che (seppur parzialmente) torna a confermare la tesi di Ek, secondo il quale - se un disco è bello, e piace - non sarà lo streaming a impedirgli di vendere...