Gli artisti che decidano di mettersi in proprio per emanciparsi dagli intermediari che orientano le loro carriere - e, soprattutto, i loro orizzonti commerciali - prendendo in mano le redini del loro destino? Le star del pop e del rock ci sono arrivate giusto qualche giorno fa, quando in grande pompa - rigorosamente digitale, e sulle note di "The national anthem" dei Radiohead, altra band che coi servizi di streaming non ha mai avuto un buon feeling - hanno presentato Tidal, il nuovo servizio streaming controllato da gruppi e cantanti (o, meglio, da un cantante, Jay-Z, che ne detiene la quota di maggioranza, e da altri soci di minoranza come Madonna - nella foto qui sotto mentre, con sullo sfondo compagni d'avventura come Jack White e Daft Punk, firma entusiasticamente il contratto che la lega come co-fondatrice del progetto - a spartirsi le rimanenti porzioni che gli osservatori suppongono corrispondere al 3% ciascuno) che promette di rivoluzionare il gioco ad oggi condotto solo da grandi gruppi come Spotify e Deezer. A differenza da questi, Tidal non è concepito da strateghi del marketing e della comunicazione digitale, ma da musicisti che hanno a cuore il proprio prodotto. Nel mondo del cinema ci si arrivò molto prima. Guardate la foto che apre questa news, sopra il titolo: ritrae (da sinistra verso destra) il regista David Wark Griffith, con il suo "Nascita di una nazione" padre del cinema americano, l'attrice Mary Pickford, Charlie Chaplin (intento a firmare, seduto - e non sdraiato...) e il suo collega Douglas Fairbanks - con, in secondo piano, gli avvocati Albert Banzhaf e Dennis F. O'Brien, nell'atto della fondazione della United Artists, prima casa cinematografica ad essere completamente controllata da attori e registi. Da chi, insomma, il cinema lo fa, e non da chi lo tratta. "I matti si sono impossessati del manicomio", commentò sarcasticamente allora Richard Rowland, presidente della casa cinematografica Metro Pictures: era il 5 febbraio 1919, e il sonoro, sul grande schermo, sarebbe arrivato solo una decina d'anni più tardi. Il progetto, in effetti, fu se possibile ancora più rivoluzionario e radicale di quello orchestrato da Jay-Z con Alicia Keys, Win Butler e Régine Chassagne degli Arcade Fire, Beyoncé, Daft Punk, Jack White, Jason Aldean, J. Cole, (xxx), Chris Martin dei Coldplay, Calvin Harris, Kanye West, Daedmouse5, Madonna, Nicki Minaj, Rihanna e Usher. Alla United Artist i tre attori e il regista fondatori detenevano in principio il 20% delle quote ciascuno, con un restante 20% nelle mani dell'avvocato William Gibbs McAdoo. Un vero e proprio collettivo, che - proprio come Tidal, ma con quote di partecipazione ancora più equamente distribuite - aveva come obbiettivo, prima ancora che lo scardinamento dell'allora nascente studio system hollywoodiano, un trattamento più equo in termini economici dei protagonisti delle opere cinematografiche. Un sogno che durò cinque anni, prima di incontrare le prime difficoltà, che si presentarono nel '24, quando il primo dei fondatori - Griffith - decise di mollare: seguirono anni bui, fatti di accordi di distribuzione con indipendenti, defezioni e scelte sbagliate, fino a quando - nel '41 - Chaplin e la Pickford, insieme a colleghi come Orson Welles, Alexander Korda e altri provarono a dare nuova linfa alla UA con la Society of Independent Motion Picture Producers. Anche questa avventura - nonostante una battaglia legale (vinta) contro le major per il monopolio nel controllo delle sale - si consumò in fretta, e nel '58, venute meno le prerogative che avevano portato alla fondazione della società, la SIMPP chiuse i battenti. Perché i tempi stavano cambiando: la United Artist divenne un società per azioni nel 1957, di fatto perdendo la particolarità che aveva caratterizzato la sua creazione. Oggi, tra gli azionisti della compagnia, figurano gruppi di prima grandezza come la MGM Holdings e la Hearst Corporation. Difficile - e pretestuoso - sarebbe cercare di ipotizzare un futuro di Tidal, a poche ore dalla fondazione, sulla base di un'analogia calzante ma lontana, soprattutto per tempo e scenari ad esso collegati. Vero è, d'altra parte, che vedere Madonna sorridente a fianco di Deadmau5, che non più tardi di due anni fa l'aveva bollata come "idiota del cazzo", fa un certo effetto: l'ex material girl - come tutti gli altri - avrà le sue buone ragioni, ragioni che più che nell'utopia dell'autogestione artistica molto probabilmente affonderanno le proprie radici in margini di profitto e prospettive di crescita. Cioè, coi tempi che corrono, quelle più solide. Poi, come si dice, chi vivrà vedrà. Più che altro, da osservatori, verrebbe spontaneo domandarsi: perché, dagli albori del cinema muto al superamento - con lo streaming - della musica "liquida", a certe cose ci devono sempre pensare gli americani? Quello statunitense è il primo mercato discografico al mondo, e muovendo interessi più grossi è facile che stimoli i propri protagonisti a certe riflessioni. Eppure, anche se in scala minore, il discorso in linea di principio resterebbe valido anche da noi. Cosa succederebbe se un manipolo di big come, ad esempio, quelli che animarono l'adunata benefica "Italia loves Emilia" decidessero di mettersi in affari e curare in prima persona la distribuzione digitale delle proprie opere? C'è da dire che in Italia il pragmatismo e il senso degli affari sembrano non appartenere granché agli artisti, se non a quelli di nuova e nuovissima generazione: J-Ax e Fedez, con la Newtopia, pare stiano provando a infrangere il tabù che vuole il cantante e l'imprenditore come figure in nessun caso sovrapponibili, ma, appunto, per il momento sono l'eccezione che conferma la regola. E anche al netto di gelosie da camerino, con i rispettivi management pronti a darsi battaglia gli uni con gli altri sull'ordine di presentazione in occasione dello showcase, come conciliare le visioni strategiche di entourage che - per ammissione dello stesso presidente della FIMI Enzo Mazza - hanno pesantemente trascurato il fenomeno streaming, arrivando in certi casi a bollarlo come una moda passeggera? Senza contare, poi, la totale assenza della versione "free" di un ipotetico Tidal.it, che in un paese (il nostro) sempre meno disposto a pagare per ascoltare musica (registrata), potrebbe rappresentare un grave handicap, almeno dal punto di vista dell'immagine. E anche dando per scontata la buona volontà di tutte le eventuali star tricolori che vogliano imbarcarsi in un'avventura di questo tipo, occorre non dimenticare che in genere, in Italia, il primo ostacolo per una nuova impresa è il più delle volte sia rappresentato dall'Italia stessa: il nostro Paese, con una delle reti più lente di quello che un tempo veniva chiamato primo mondo, difficilmente potrebbe reggere uno streaming audio in alta definizione come è quello di Tidal. E venuta meno l'attenzione alla musica - il minimo che ci si aspetti da un servizio concepito da artisti - verrebbe meno la stessa ragion d'essere di un'iniziativa del genere.