Riceviamo e molto volentieri pubblichiamo il contributo di Claudio Ferrante, Presidente e fondatore di Artist First, sulla nascita di TIDAL e sulle implicazioni di un'eventuale corrispettivo italiano della nuova piattaforma fondata da Jay-Z. Artist First è la prima società italiana di distribuzione discografica, fisica e digitale, nata nel 2009 per offrire un'alternativa al sistema distributivo musicale italiano, proponendo servizi e prodotti realizzati su misura per gli artisti e gli imprenditori musicali italiani e creando così l’anello di congiunzione diretto tra loro e il mercato. Artist First conta ad oggi più di 150 pubblicazioni esclusive (dirette o acquisite attraverso le etichette distribuite), 8 dischi d’oro, 5 dischi multiplatino, 1 disco di diamante, quest’ultimo anche disco più venduto nel 2011, 1 doppio disco di platino, che è stato anche l’album più venduto nel 2014 e 18 ingressi al numero 1 della classifica. L’azienda ha sede a Milano e impiega 50 collaboratori, tra dipendenti, agenti e visual merchandiser. Sto leggendo con molto interesse gli articoli pubblicati su Rockol a proposito di Tidal, la nuova piattaforma acquisita e promossa da Jay-Z insieme ad alcuni tra i più importanti (e credibili) artisti del pianeta, tra cui Madonna, Daft Punk, Coldplay. Il fatto è epocale, rivoluzionario. Presto per dire se sarà un successo o un flop, ma è un qualcosa di totalmente inedito nel mondo dell’entertainment mondiale, perché dopo questo annuncio, a quanto afferma lo stesso Jay-Z, probabilmente nulla sarà più come prima. Siamo stati abituati ai lanci mega, alle grandi aspettative su questo o quel prodotto/servizio, ma mai si era visto che un gruppo di artisti si riunisse nella stessa stanza per cercare di cambiare le regole del gioco, sostenendo una piattaforma di streaming musicale diventandone azionisti, mettendoci la faccia e parlando di qualità e di “cambio delle carte in tavola”. Ci si potrebbe davvero chiedere, guardando in casa nostra, se Jovanotti, artista sempre “sul pezzo” nell’innovazione, fosse il Jay-Z italiano, un imprenditore moderno con il fiuto per il business e la credibilità sufficiente per aprire nuovi spiragli e nuove opportunità nel mondo musicale. Ma non credo si debba andare tanto lontano con la fantasia per porsi delle domande sulle prospettive nel mondo negli artisti nel nostro paese. In uno degli articoli da voi pubblicati su Tidal, si afferma che “in Italia il pragmatismo e il senso degli affari sembrano non appartenere granché agli artisti, se non a quelli di nuova e nuovissima generazione: J-Ax e Fedez, con la Newtopia, che pare stiano provando a infrangere il tabù che vuole il cantante e l'imprenditore come figure in nessun caso sovrapponibili, ma, appunto, per il momento sono l'eccezione che conferma la regola”, e su questo, al netto della mia stima nei confronti di Fedez, consentimi, non sono d’accordo. Da questo punto di vista, l’Italia è stato uno dei primi paesi in cui si è attivata una coscienza artistico-imprenditoriale. Nel 2009 Renato Zero decise di staccarsi dalla sua casa discografica producendo autonomamente e fuori dal circuito distributivo major il suo album e distribuendolo attraverso un operatore di logistica e distribuzione, pagandosi spese promozionali, campagne, promoter radio-tv e decidendo quindi di mettersi totalmente in proprio. Negli anni – e cito solo alcuni nomi provenienti da diverse aree musicali - si sono aggiunti i Pooh, gli Afterhours, I Nomadi, Mina, Elio e le storie Tese, Alex Britti, il Teatro degli Orrori insieme a tanti altri imprenditori e produttori che hanno deciso di percorrere strade alternative nel mondo della distribuzione e della proposta, con iniziative commerciali mirate alla fanbase. Certo, il discorso fin qui è impostato su due piani differenti: da una parte parliamo degli USA, di Tidal e di star planetarie che decidono di unirsi intorno a una piattaforma di streaming digitale, perché i tempi cambiano, e la grande scommessa è quella di affermare un modello di business digitale per gli artisti, dall’altro in Italia c’è una consapevolezza imprenditoriale di chi oggi vuol fare da solo perché non vuole più lavorare con le grandi aziende discografiche. Apparentemente due cose completamente diverse, se poi guardi bene, in fondo non lo sono per niente. Perché alla base e nelle fondamenta ci sono gli stessi valori che spingono gli artisti a ricercare strade alternative, alla base si sono accorti che qualcosa si è rotto. Abbiamo visto nell’ultimo anno tanti artisti dichiarare che le royalties provenienti dagli utilizzi streaming sono ridicole, poche centinaia o a volte decine di dollari a fronte di milioni di streaming. Ma perchè a monte c’è stato qualcuno che, a Londra o New York o in qualche altra parte del pianeta, ha negoziato percentuali e incassato in anticipo degli importi in alcuni casi molto importanti, l’oggetto di quella negoziazione era il repertorio globale di migliaia di artisti, senza cui quella trattativa non avrebbe avuto luogo di esistere. A valle sono arrivate le briciole. Quando poi sono arrivati per ultimigli indipendenti a negoziare, o gli artisti stessi (nel caso di YouTube ad esempio) hanno raccolto anch’essi le briciole perché il danno ormai era stato fatto, erano stati fissati dei parametri che stavano bene ad un sistema, ma che probabilmente non erano equi per gli artisti. Poi qualcuno finalmente si sveglia e riconosce la distorsione del sistema: un mondo pieno zeppo di musica a fronte di un compenso economico scarso che, peggio ancora, offende e svilisce il lavoro di migliaia e migliaia di persone dell’indotto, impoverendolo, svilendolo del tutto. Abbonarsi a Tidal nella versione hi-fi costa in effetti tanto e non so cosa si siano detti tutti quegli artisti nella famosa “stanza”, ma a giudicare da quello che stanno dichiarando in queste ore vogliono riaffermare un principio, la musica deve valere di più, deve essere tutelata e rispettata, deve essere proposta con qualità. Ed entrano in campo loro perchè l’industria in questo ha fallito, ha parlato poco di qualità e non ha compiuto azioni efficaci, nonostante i buoni auspici, per qualificarla, e per remunerare meglio coloro che ne sono il propulsore, inutile che si dica che gli artisti siano poco propensi allo streaming perchè non lo conoscono. Non incassano soldi da quegli utilizzi perchè qualcun altro ha trattato in nome e per conto loro, avendone titolo per farlo. Retrocedendo importi di gran lunga inferiori ad un compenso equo per quegli utilizzi. Criticare un sistema tanto per parlarne male ha poco senso. Fare qualcosa ha molto più senso. In Italia come degli USA e su piani differenti le coscienze sono più che mai attive, c’è la voglia e la consapevolezza che fare da soli e metterci la faccia in prima persona sia l’unica cosa possibile per provare a rendere sostenibile il sistema, chi doveva farlo e non l’ha fatto ha semplicemente perso una buona occasione per continuare ad essere protagonista della scena, perchè da oggi, e in Italia da qualche anno, sul palcoscenico dell’industria ci vogliono essere anche gli Artisti. Imprenditori. Consapevoli.