Non sappiamo quale sarà l’impatto nel medio-lungo termine della Brexit. Né per i cittadini britannici, né per quelli europei, né per le altre realtà ed economie coinvolte. Quindi non possiamo prevederli accuratamente nemmeno per il settore musicale. Tuttavia, alcuni effetti di breve termine sono destinati, secondo gli analisti, a durare nel tempo. In primis, la forte svalutazione della sterlina: ai potenziali vantaggi nelle esportazioni si opporrà una forte perdita di potere d’acquisto. In secundis, i trattati sul commercio internazionale: dovranno tutti essere rinegoziati con Europa e Stati Uniti e, oltre ad appesantire la fluidità e l’efficacia delle transazioni, prenderanno anni e difficilmente saranno migliorativi per la Gran Bretagna rispetto alle condizioni attuali. Più in specifico, però, possiamo individuare tre ambiti in cui la situazione pare avviata a evolvere in negativo per l’industria musicale del Regno Unito. Musica registrata Secondo un sondaggio della BPI, il 68% dell’industria discografica britannica auspicava che il referendum decretasse una vittoria del Bremain. Non è casuale: la musica britannica vale oltre un quarto del fatturato europeo, stando ai dati più recenti. Una volta fuori dal mercato comune – come peraltro già accadeva prima dell’ingresso della Gran Bretagna nell’Unione Europea – si manifesteranno di nuovo tasse in ingresso e in uscita. La rivincita dei dischi di importazione UK nel mondo? Non proprio, dato il ruolo attuale della musica digitale. In realtà è prevedibile qualche difficoltà ulteriore in fase di esportazione: nuove imposte assottiglieranno margini già esigui e si competerà meglio con grandi economie di scala (non positivo per le indies). E anche in termini più strettamente produttivi, qualche complicazione economica potrebbe sorgere per la stampa del prodotto, oggi in parte affidata ai impianti dislocati in Europa e non nell’isola. Musica dal vivo Fa differenza giocare dentro o fuori le regole del trattato di Schengen. Standone fuori, gli artisti dovranno affrontare due fattori peggiorativi della loro attività dal vivo. Dovranno compilare il cosiddetto “carnet”, in cui dettagliare ogni singolo pezzo dell’equipaggiamento al proprio seguito per scongiurare attività illecite di import-export. Farragine non da poco: tempo in più in fase di preparazione, e tempi lunghi alla dogana. E dovranno anche dotarsi di un visto (Visa), che comporta un costo annuale stimabile in una forchetta tra i 1.200 e il 2.500 euro. Per molti artisti non di chiara fama, si tratterebbe di una concreta barriera all’ingresso. I visti, oltre che manifestarsi a un costo esplicito, ne celano pure uno latente il cui impatto negativo è di gran lunga superiore: è prevedibile, infatti, che potrebbero dovere essere i promoter a fare da “sponsor” nei confronti di una band da portare in tour nel proprio paese, accollandosi così rischi e montagne di burocrazia. Quanti vorranno o potranno farlo, sovraccaricando un’agenda già zeppa di impegni e di rischi economici? Copyright Safe harbour e dintorni, sì, ma non solo. Al di là dell’onda montante contro la situazione del copyright meglio esemplificata dalla battaglia globale che gli artisti stanno conducendo contro Google, isolarsi dalle negoziazioni e fare da sé oggi non suona come un grandissimo affare. L’uniformità del copyright è un valore per ogni appartenente alla filiera della musica. Complicarlo è un autogol. Non sappiamo poi se, a frittata ormai fatta, la Gran Bretagna non finirà per optare essa stessa verso una strategia da “safe heaven”: puntando a valorizzare un isolamento de facto grazie a migliori condizioni fiscali per le aziende (già ci sono e l’iva arriverà a scendere dall’attuale 20% al 17%) e a condizioni speciali per l’industria musicale. (gdc)