"Quello che le donne non dicono", nella celebre versione di Fiorella Mannoia, impazza dai primi giorni di ottobre sulle reti tv Rai e Mediaset come commento sonoro al nuovo spot Calzedonia. Ma l’interprete romana non gradisce (in particolare il “claim” del messaggio pubblicitario, con quella voce femminile che alludendo al titolo del brano sostiene che “quello che le donne non dicono lo dicono le gambe”) e affida il suo malcontento ad una pubblica dichiarazione diffusa attraverso il suo sito Internet. Premesso di aver autorizzato l’uso pubblicitario del brano come da richiesta della casa discografica Sony Music, la Mannoia aggiunge che la stessa Sony “non si è in alcun modo preoccupata di richiedere il mio parere in merito né allo spot, né al claim”, da lei ritenuto “profondamente distante dal significato che la canzone vuole trasmettere”. “Ho già avuto modo di esternare la mia disapprovazione alla Sony Music in merito all'accaduto”, conclude la cantante. “Ho chiesto, sempre alla Sony Music, di intervenire per la modifica del claim e sto aspettando che questo avvenga, nel rispetto del mio lavoro e di tutto quello che ha rappresentato in questi anni”. <br> Dalla Sony (com’è nello stile dell’azienda, tanto più quando di mezzo ci sono questioni che possano urtare la sensibilità degli artisti) nessun commento ufficiale: ma è certo che qualche risvolto della faccenda deve esserle sfuggito di mano se è vero che, come confermano voci di corridoio, l’ufficio legale della multinazionale si è messo in moto per chiedere al cliente Calzedonia il ritiro della frase “incriminata”, contando sul fatto che questa non compare nello spot contemporaneamente diffuso sui mezzi radiofonici (intanto però la campagna prosegue indisturbata nella sua forma originale). Storia curiosa, considerando il fatto che, dalle informazioni raccolte da Rockol, Calzedonia e Foote, Cone & Belding (l’agenzia pubblicitaria che ha curato la campagna stessa) già dal mese di giugno avevano informato chi di dovere dei contenuti dello spot, “claim” compreso: contattando l’editore Warner Chappell, comproprietario e amministratore del copyright sulla canzone, firmata da Enrico Ruggeri e Luigi Schiavone; e la casa discografica Sony Music, titolare, a quanto ci risulta, della registrazione sonora usata nello spot (non la versione originale della Mannoia, contenuta nell’album DDD del 1988 “Canzoni per parlare”; ma quella ricantata nel 1993 nella raccolta “Le canzoni”: uscita allora su etichetta Harpo, di proprietà della stessa Mannoia e di Piero Fabrizi, e poi acquisita da Sony). E strano che, nel contestare l’uso improprio del testo, la Mannoia non menzioni mai Ruggeri e Schiavone: i più titolati, a rigor di logica, a dire la loro sull’argomento. Per loro conto parla l’editore Luigi Bartolotta, responsabile dei progetti speciali alla Warner Chappell: “Il titolo di una canzone fa parte dell’opera musicale, dunque sono gli autori e compositori ad avere voce in capitolo, non l’interprete”. E il “claim” contestato? “Quando lo abbiamo letto, verificando l’allusione esplicita al testo della canzone, abbiamo alzato la richiesta economica, com’era nel nostro diritto. Tutto qui”, risponde ancora Bartolotta. Allora, sorge il dubbio, ci sono anche questioni di soldi (e non solo ideologiche, o d'immagine), dietro l’uscita pubblica della Mannoia? Chissà, questa è una di quelle cose che gli artisti non dicono…