Mentre la stampa italiana si perita di raccontarci quanto il Coachella piaccia alla gente che piace (ma anche quella specializzata straniera, a onor del vero, ci mette del suo), il Los Angeles Times, quando ancora non è finito il primo weekend di quella che negli ultimi anni è diventata "la" manifestazione musicale di riferimento, si interroga: possibile che la maratona ospitata dall'Empire Polo Club di Indio, in California, nonostante quest'anno abbia fatto segnare il suo record storico di affluenza, stia iniziando a mostrare i primi segni di invecchiamento e declino? "Giunto alla sua diciottesima edizione, la più frequentata di sempre, il festival si è ormai posizionato più come una sorta di resort da weekend che come una rassegna in grado di raggruppare le tendenze musicali meno allineate", scrive il corrispondente da Indio della testata californiana. "E' troppo affollato, non ci si riesce a muovere e non è divertente", osserva una spettatrice, una delle 125mila in possesso di un biglietto per il primo weekend: "E' come se [agli organizzatori] importasse solo dell'incasso". Anche il contesto storicamente politico della manifestazione - solitamente frequentata da un pubblico liberal ovviamente avverso all'attuale governo presieduto da Donald Trump - sembra essere ormai dimenticato: nonostante sul palco principale si siano alternati nomi decisamente engagé come quelli di Kendrick Lamar, Lady Gaga e Radiohead, il pubblico - osserva l'inviato del Times - pare appassionarsi di più a colossasi bevute di birra che non al messaggio lanciato dalla ribalta. "Di certo non è più lo stesso festival di qualche anno fa", spiega Eddie Gutierrez, che ormai da tre anni lascia la sua città di residenza, San Francisco, per buttarsi nel mondo Coachella: "L'atmosfera rimane bella, ma c'è troppa gente. Bisogna lottare per vedere i gruppi, e alla fine questa cosa stanca. Ho la sensazione che la gente non sia davvero qui, ma sia qui più che altro per dire di essere stata al Coachella". C'è, però, chi in questa piega escapista del festival non ravvisa nessun pericolo, anzi. "La gente, quando è qui, non legge le notizie sul cellulare, e vive una vera esperienza di comunità", racconta Jesse Flemming, co-fondatore della DoLab, agenzia che da anni collabora agli allestimenti del festival: "La gente brama cose del genere. Vivere in un mondo dove i politici sono quello, e - anzi - oggi tornano a flirtare con nuovi conflitti, fa sentire alla gente l'esigenza di tornare alle proprie radici".