I dati IFPI diffusi ieri parlano chiaro, e non lasciano troppo spazio a interpretazioni: la crisi dell'industria discografica - ci dicono i numeri - è finita. Per due anni consecutivi il mercato musicale mondiale è cresciuto, e nemmeno di poco: non succedeva da vent'anni, cioè da quando l'International Federation of the Phonographic Industry ha iniziato il monitoraggio annuale del comparto. Le ragioni del boom non sono difficili da intuire: i quasi sei punti percentuali in più fatti segnare nel 2016 sono per buona parte merito del digitale, che solo lo scorso anno ha rappresentato il 50% del totale delle vendite in tutto il mondo. "Dopo anni di investimenti in innovazione stiamo iniziando adesso a vedere i risultati", ha spiegato l'amministratrice delegata di IFPI Frances Moore presentando a stampa e addetti i lavori di dati 2016: "Dall'adattarci all'età digitale siamo passati al guidare l'età digitale. Del resto la storia della musica registrata negli ultimi due decenni ha conosciuto grandi cambiamenti: dal fisico al digitale, dal download allo streaming, dalla proprietà all'accesso. Volevamo raggiungere un'ulteriore trasformazione, quella dal declino alla cresciuta". I dati suggerirebbero il "missione compiuta", anche se gli stati maggiori della major suggeriscono prudenza, perché - come ha ricordato il presidente della comparto musicale del gruppo Warner Stu Bergen - "il cammino per assicurare ai nostri artisti un ambiente forte e sano è ancora lungo". Già, perché nonostante il risultato - seppure storico - la discografia ha qualche riserva a mostrarsi troppo soddisfatta. La ragione - ca va sans dire - è il value gap, ovvero il divario nelle percentuali di ripartizione editoriale che intercorre tra i servizi di streaming a pagamento come Spotify, Deezer, TimMusic, Amazon, Apple Music e altri e Youtube, che beneficia di una deroga (molto contestata, e negli anni oggetto di battaglie legali - tutte vinte dalla controllata di Google - con colossi come Viacom e Universal) al Digital Millennium Copyright Act. Meglio conosciuto come safe harbor, il provvedimento permette a servizi Web come quello offerto dalla piattaforma social di media sharing controllata da Google di corrispondere ai titolari dei diritti una quota molto inferiore a quella pattuita con altri servizi di streaming a pagamento. Anche qui, è tutta questione di numeri. Youtube è il primo diffusore di musica in Rete, con oltre 900 milioni di utenti che nel 2016 sono valsi - in termini di ricavi in diritto d'autore ai legittimi titolari, siano essi artisti o società di edizioni - 553 milioni di dollari. Una cifra discreta, ma irrisoria, se comparati ai quasi quattro miliardi di dollari generati dai "soli" 200 milioni di utenti dei servizi di streaming a pagamento o freemium. Una potenziale fetta di utili colossale, che comprensibilmente toglie il sonno a molti. La questione è aperta da tempo, e su queste pagine ne abbiamo sempre riferito puntualmente: nel novembre dello scorso anno, quando Donald Trump era appena stato eletto dagli americani come nuovo presidente degli Stati Uniti, la lobby tecnologia guidata da Michael Beckerman e raggruppata sotto la sigla Internet Association della quale - oltre a Google - fanno parte anche Facebook, Twitter, Amazon, Reddit e Yahoo, aveva bussato alla porta del futuro inquilino della Casa Bianca chiedendogli di confermare - se non addirittura rafforzare - il safe harbor, certo che un eventuale giro di vite sui contenuti generati dagli utenti che violino il diritto d'autore (storica, al proposito, fu la causa intentata da Universal Music a Stephanie Lenz, "rea" di aver caricato su Youtube un video di 30 secondi della figlia che ballava sulle note di una canzone protetta da copyright) potesse significare un tracollo delle piattaforme social. Il successore di Barack Obama non ha in particolare simpatia i big del Web, che gli sono sempre stati più o meno velatamente avversi, ma ha a cuore il buon funzionamento di uno dei comparti più importanti e competitivi dell'economia statunitense attuale: in mancanza di prove che dimostrino il contrario, Trump pare abbia intenzione di mantenere - senza troppi clamori, e in presenza di problemi più impellenti sul versante della politica estera - lo status quo. La discografia lo sa, ma la posta in gioco è troppo alta per mollare il colpo: "Più a lungo verrà permessa questa distruzione del valore della proprietà intellettuale, più grande sarà la minaccia all'ecosistema musicale, con costi ai creativi, ai fan e alle stesse piattaforme di servizi digitali", ha commentato Michael Nash, vicepresidente del reparto strategie digitali del gruppo Universal, "Non possiamo permettere al value gap di distoglierci dalla nostra missione".