E’ un interessante pezzo di analisi quello che Bloomberg ha pubblicato la scorsa settimana a proposito degli NFT musicali e del loro valore. Trovo istruttivo che si sia enfatizzato il solco sempre più marcato tra quanto hanno fruttato a chi li ha emessi, cioè gli artisti, e quanto valgono oggi sul mercato per chi si è svenato per acquistarli, cioè i fans. Il quadro che ne esce è poco confortante. Il caso da manuale citato dalla testata economica americana è quello di Grimes (celebre anche per essere la compagna dell’uomo più ricco del mondo, Elon Musk), che lo scorso febbraio ha coniato una collezione di NFT tra cui “Earth”: in venti minuti sono andati a ruba e le hanno reso 5,8 milioni di dollari. Cifretta maturata velocemente come un prelievo al bancomat che, comunque, potrebbe assomigliare al fatturato annuale di una piccola indie, per dire. Oggi si apprende che i fans che si sono accapigliati per portarli a casa non hanno fatto un buon affare: “Earth”, uscito a 7.500 dollari per ciascuna unità originale tra quelle della sua serie a tiratura limitata, viene infatti quotato e scambiato sul mercato soltanto a un valore medio di 1.200 dollari. E via così nell’articolo, che evidenzia diversi altri esempi: un NFT di A$AP Rocky venduto ad aprile per 2.000 dollari ora viene scambiato a 900 dollari, o un NFT di Shawn Mendes venduto in Ether (la principale concorrente dei BItcoin tra le criptovalute) che vale la metà rispetto al suo prezzo originale di emissione. Per dovere di cronaca Bloomberg cita anche le eccezioni, come Bored Ape Yacht Club #2224 passato da 10.000 a 335.000 dollari. Ma, appunto, di rare eccezioni si tratta, e quindi qualche rapida riflessione ci sta perché intorno agli NFT stiamo assistendo a una serie di fenomeni concomitanti. Il primo pensiero corre alla forbice che si è creata tra il valore attribuito a presunti o effettivi prezzi unici e il valore affettivo che stessi assumono per i fans: c’è una bella differenza, in termini economici. Due mondi che dovrebbero dialogare parecchio, particolarmente in un’era in cui la monetizzazione delle carriere musicali passa attraverso la valorizzazione delle fan base, sono in effetti separati da una netta dicotomia: all’agevole opportunità di monetizzazione (gli artisti producono asset virtualmente a costo zero e a margine 100%) spesso pare non corrispondere la bontà dell’investimento per gli acquirenti, che però sono proprio gli agenti attivi della monetizzazione. Non è mai un gran viatico per la bontà di una relazione che si auspicherebbe che diventasse duratura. A seguire, direi che si nota un progressivo sgonfiamento dell’hype intorno ai non fungible tokens, pur sempre uno dei veicoli promozionali più efficaci per l’evangelizzazione del pubblico non avvezzo alle criptovalute. Ovvio che questo punto dipenda un po’ anche da quello precedente. Infine, possiamo notare come la corrispondenza tra beni scarsi ed arte digitale collezionabile non sia affatto automatica, e meno ancora ovvia: i veri collezionisti d’arte che hanno deciso di diversificare anche in NFT musicali, infatti, si tengono ben distanti dal mercato delle celebrità.