La notizia, innanzitutto: come rivelato da Bloomberg, la KKR si accinge ad emettere obbligazioni per circa $ 732 milioni sostenute da royalties per diritti editoriali e diritti sulle registrazioni. In particolare, si tratta dei copyright sulle canzoni di un ingente catalogo che KKR ha acquisito da Kobalt lo scorso ottobre, attraverso un proprio ‘veicolo’ specializzato – Chord Music – pagandolo $ 1,1 miliardi. Tra i 65.000 brani in questione sono inclusi quelli di Stevie Nicks, Childish Gambino e The Weeknd; in ogni caso, l’11% del catalogo include pezzi che sono finiti nella top 10 di Billboard. La Kroll Bond Rating, agenzia specializzata nel valutare la solidità dei titoli, attribuirà una A ai bond di KKR (la cui offerta sarà co-curata da Credit Suisse): per i meno avvezzi alle cose della finanza, è il sesto rating più alto; dal B a scendere comincerebbe il pericoloso percorso che termina nella classificazione dei junk bonds, i titoli spazzatura. Della corsa all’acquisizione dei cataloghi musicali raccontiamo con notevole frequenza da un paio d’anni. E, per la verità, quando Rockol aveva solo due anni di vita – era il 1997 - raccontammo in diretta anche dei Bowie Bonds, una delle innumerevoli manifestazioni di pre-scienza del Duca Bianco. Gettare un ponte tra quell’episodio e la tendenza attuale alle acquisizioni delle canzoni delle leggende della musica è un modo per raccontare i fondamentali dell’industria musicale. Nel 1997, per iniziativa di David Pullman, David Bowie incassò 55 milioni di dollari emettendo obbligazioni con un rendimento altissimo (oltre il 7%, che oggi equivale a fanta-finanza) basate sui futuri incassi da royalties del suo catalogo. E dunque avevamo un artista – un genio di stampo rinascimentale, certo, ma pur sempre un artista – che iniziava a monetizzare in anticipo flussi futuri di ricavi basati su asset di sua proprietà. O quasi, considerando che Bowie avrebbe utilizzato parte di quella enorme massa di contanti per ricomprarsi quella quota del suo repertorio che era ancora in mani altrui (la sua nota e malsana relazione con l’ex manager Toni Defries era alla base del vulnus, che fu comunque sanato andando ad aumentare immediatamente il valore prospettico del patrimonio). I Bowie Bonds furono valutati da una agenzia di primissima fascia, Moody’s, e presero un passabile A3. La durata delle obbligazioni era di 7 anni: alla scadenza erano diventate junk bonds (Baa3). Perché? Per colpa di Napster, per farla breve. Il valore della musica – insieme ai ricavi dell’industria – era precipitato e l’intero settore sarebbe stato marchiato con una lettera scarlatta per decenni a venire. La finanza non voleva più sentire parlare di musica, precipitata in una spirale negativa di decrescita dalla quale non era chiaro se e come sarebbe uscita, avvolta dalla gratuità del prodotto causata dalla pirateria digitale. Venticinque anni dopo – e dopo 6-7 anni di crescita del settore e di tendenza abbondantemente invertita – la finanza è tornata ad adorare la musica. E’ successo quando la canzone è tornata ad essere la misura fondamentale del marketing musicale ed è diventata un asset class, ossia un bene capace di garantire un valore. Peraltro, sembrerebbe indicare la situazione registrata nel pieno della pandemia, anche di tipo anti-ciclico, che è sempre gran cosa. Anche in questo caso possiamo chiederci: perché? E anche in questo caso possiamo farla breve: grazie allo streaming e a Merck Mercuriadis. Lo streaming coincide con la ragione strutturale di questa situazione: nella fase attuale dell’economia, le piattaforme hanno creato fonti di ricavo ricorrenti e prevedibili. In particolare, a giudicare dalle metriche, il combinato disposto della playlist e degli algoritmi ha resuscitato i cataloghi musicali che, stando a diverse fonti, totalizzano circa l’80% degli stream globali. E qui entra in scena il vecchio Merck con la sua Hipgnosis. Non un artista, ma un ex manager navigato, Mercuriadis non dispone di un patrimonio proprio in canzoni, quindi convince la City londinese che ci sono soldi da fare comprandone diversi, anzi: comprandone la maggiore quantità possibile. E’ una mossa inedita quando inizia a concretizzarsi. E siccome Hipgnosis non è un incumbent ma un newcomer, la sua credibilità non può che dipendere dal denaro: quello che Merck si è fatto dare dai suoi soci finanziari e con il quale comincia a pagare i cataloghi circa il doppio del loro valore tradizionale. Hipgnosis, infatti, acquisisce valorizzando i repertori con un moltiplicatore di 20-22 (cioè: paga 22 volte il fatturato annuale atteso), laddove prima del suo avvento usava pagarli con un moltiplicatore di 10-11. Insomma, Hipgnosis alza la soglia dei prezzi. Ed il resto, più che storia, è attualità: da Neil Young a Bob Dylan a Bruce Springsteen, volano centinaia di milioni di dollari grazie anche a entità come Blackstone, KKR e Pimco. Le obbligazioni di KKR sono lo stadio successivo della nuova vita finanziaria della musica, non necessariamente una sorpresa né un unicum – la canadese Northleaf, ad esempio, è pronta ad un’operazione analoga dopo avere acquisito cataloghi da Spirit Music Group. Le grosse istituzioni finanziarie acquisiscono patrimoni musicali in forma di cataloghi, erogando cash che finisce nelle tasche dei titolari dei diritti e finanziandosi con l’emissione di titoli la cui validità è certificata da agenzie di rating sulla base dell’andamento del settore al quale quei titoli fanno riferimento. Il settore-musica va bene e promette bene, dunque la cartolarizzazione è una pratica sensata. Ci sono ancora moltissimi back catalogues da esplorare, scovare e valorizzare. A un certo punto, tuttavia, sarà utile concentrarsi anche su quel 20% di streaming che arriva dalla front line, per capire se a sua volta diventerà catalogo o meno. Che, poi, è il lavoro che distingue un editore musicale da un “songs management fund”, come è spiegato causticamente bene qui.