Lo scorso 25 marzo, semplicemente avendo rilevato un dato degno di nota, la redazione di Rockol si era puntualmente occupata di Anitta, pubblicandone un profilo. Non moltissimo, infatti, si sapeva di questa attraente artista brasiliana, la prima del suo paese a raggiungere la prima posizione in una classifica globale. Era accaduto quel giorno grazie alla sua canzone “Envolver”, brano con più stream nella playlist Daily Top 50 Global di Spotify. Erano 6,4 milioni, di cui quasi il 70% (4,1 milioni) generati in Brasile. Nemo propheta in patria? “Envolver” veniva abbastanza da lontano, però. Era stata pubblicata l’11 novembre dell’anno prima ed era cresciuta molto in popolarità su YouTube, dove il suo video aveva generato oltre 120 milioni di views. Il pezzo, secondo quanto raccontato dalla stessa Anitta (che l’ha composto insieme a Julio M. Gonzales Tavarez, Freddy Montalvo e José Carlos Cruz) avrebbe addirittura rischiato di non vedere nemmeno la luce poiché la sua etichetta (Warner) era contraria alla sua pubblicazione. E invece. Il singolo prese a scalare posizioni in America Latina, grazie a una viralità ottenuta con TikTok e Twitter. Curiosamente, la sua prestazione risultava inferiore proprio in Brasile, dove entrò al 48° posto dei più suonati solo il 12 marzo, quattro mesi dopo la sua uscita. Per riuscirci, a quel punto aveva totalizzato 1,461,708 riproduzioni su Spotify. Propheta in patria! Per passare dalle nostre cronache musicali a quelle tecnologiche, Anitta ha invece impiegato un po’ più di due settimane: è accaduto grazie a una reporter di Rest Of The World che le ha dedicato anch’ella un profilo, ma con un taglio diverso. Me lo ha segnalato il CTO di Rockol, Simone Magnaschi, e la sua lettura mi ha stimolato ad approfondire. Secondo l’analisi della suddetta testata tecnologica c’erano oltre 100 playlist originali intitolate con la parola “Envolver” (tipo: “Stream Envolver”, “Envolver Stream Party”, “Envolver # 1”), ciascuna con la sua grafica originale, ciascuna composta da molti brani diversi come qualsiasi playlist ma con in comune il singolo di Anitta. La loro generazione sarebbe stata opera di un manipolo di superfans, devoti all’artista al punto da obbedire con prontezza alla sua chiamata all’azione diramata su Twitter il 14 marzo (ossia, due giorni dopo avere rotto il ghiaccio nello streaming in patria). Era un re-twit dell’artista che aveva amplificato un post pubblicato dall’account di un fan e conteneva istruzioni semplici e disarmanti: che i fans creassero playlist con la sua canzone, con la duplice avvertenza tecnica di (a) utilizzare account diversi su Spotify e (b) di cambiare continuamente account dopo 20 streams consecutivi. Il 15 marzo partiva poi una lotteria a cura dell’entourage di Anitta: si sarebbero estratti premi esclusivamente tra quei fans iscritti a Spotify Premium che avessero inviato schermate del loro stream di “Envolver” su Spotify. Dopo 10 giorni, il record di cui sopra. Fake streams? Ma no, solo (almost) fake playlists Quel cattivo odore di fake streams che prende la gola e lo stomaco emana stavolta da una zona grigia, dove a norma di legge – e anche secondo le policies di Spotify – nessun reato è stato commesso. Creare playlist per il proprio artista preferito è lecito, infatti. Ma forse il fulcro della vicenda è come un battaglione di fans possa raccogliere un invito, eseguirlo come un ordine e trasformare quello che si avviava a diventare comunque un discreto successo in un primato. Con le sue conseguenze economiche annesse, si intende. Spotify (e gli altri DSP, per quanto è dato sapere) sanno individuare facilmente l’azione dei bot e bloccarle, oppure sanno individuarle previa segnalazione e si riservano di trattenere le royalties generate illecitamente. Tuttavia, se scriviamo di certe cose, significa che tutti noi sappiamo come funziona questo gioco e quanto larghe sono le maglie in mezzo alle quali infilarsi. A quei pochi di noi che non sanno come si fa viene in soccorso Anitta, che ci ha spiegato che nessuno è più totalmente fesso da tentare un colpaccio su una piattaforma facendo streammare un pezzo a ripetizione dai bot: il cavallo di Troia per la canzone è la playlist e il bot è ormai passé, occorre sostituirlo con una legione di superfans. Che dire? Ancora una volta dall’Economia dello Streaming giunge una nota stonata. Se cento fans trovano un modo lecito di suonare una canzone dai loro dispositivi 1000 volte al giorno o 25000 volte al mese, allora i loro 2,5 milioni di stream aggregati (e generatori di royalties) assomigliano molto a una truffa, soprattutto in regime di ripartizione pro-quota, quella in larga parte in vigore. Che poi il potere della fandom nella musica digitale sia un tema interessante, è solo ovvio. Anzi, diventerà addirittura affascinante quando ad esso si aggiungeranno due fattori: il potere della blockchain, che con le sue caratteristiche di decentralizzazione e di disintermediazione promette agli artisti introiti percentualmente depurati dalle commissioni lasciate per strada (DSP, labels etc) la ripartizione in modalità user centric, di cui in questi giorni Soundcloud sta fornendo un saggio.