Rockol dedica parecchio spazio a quello che abbiamo taggato come il fenomeno del Marketing dei Cataloghi Musicali, ossia: la corsa all’acquisto dei canzonieri di artisti famosi i cui diritti i nuovi proprietari confidano di sfruttare nel tempo trasformandoli in generatori di ricavi ricorrenti. D’altro canto, la vulgata vuole che “la maggior parte degli stream sono generati dal catalogo”. E’ per quasta ragione, dunque, che colossi finanziari come Black Rock o KKR si accapigliano sui songbook di superstar attempate? No. Se lo facessero sbaglierebbero, perché parliamo di due fenomeni contigui che finiscono all’interno di una conversazione unica nella quale sono in agguato alcuni malintesi. Terminologici, concettuali e statistici. Ciò che questo articolo intende indagare brevemente e chiarire. “Catalogo”: cosa si intende? Billboard, bibbia delle classifiche internazionali e, quasi specularmente, Luminate (la ex MCR Data), definiscono catalogo tutti gli album pubblicati da più di 18 mesi. Stabiliscono un limite prima del quale un pezzo o un album sono nuovi e dopo il quale sono… vintage. Sono pochi o troppi 18 mesi? Pre-streaming, per back catalogue abbiamo comunemente inteso musica appartenente a generazioni e decenni precedenti – il classic rock essendone un fulgido esempio. Il che, osservato da un altro punto di vista, significa: dischi non più in classifica da parecchio tempo. Dunque, quando correttamente si nota che gran parte degli streams generati sulle piattaforme dei DSP sono derivanti da back catalogue, occorre fare attenzione ai malintesi. I dati Nel 2022, con i dati a consuntivo disponibili per l’intero anno precedente, è stato possibile osservare come il 69,8% del consumo di musica digitale derivasse dal “catalogo” – più 5% rispetto all’anno prima, ma quasi il doppio rispetto al 2014, quando ammontava al 36% circa. Una sorta di anno-pivot poiché dal 2015 - l’anno in cui si ritiene che lo streaming si sia consolidato - l’industria della musica registrata ha cominciato a invertire la tendenza negativa che l’affliggeva da inizio secolo e ha iniziato a crescere di nuovo. Con lo streaming, appunto. A partire dal 2018 circa, si è assistito alla corsa alle acquisizioni dei cataloghi musicali, tuttora in essere. Grandi nomi – come quelli di Bruce Springsteen, Bob Dylan, Paul Simon, Neil Young, Sting – hanno occupato le cronache dei media specializzati poiché i loro canzonieri sono stati rilevati e pagati centinaia di milioni. Se a innescare la miccia è stato il mondo della finanza, inizialmente incarnato da una newco chiamata Hipgnosis guidata dall’ex manager Merck Mercuriadis grazie ai capitali della City, nel prosieguo anche gli editori tradizionali non hanno potuto sottrarsi a una feroce competizione. Si può avere l’impressione, quindi, che i due aspetti – l’ascesa del valore dei cataloghi legacy e la prevalenza di stream generata da cataloghi – possano coincidere, siano la causa e l’effetto dello stesso fenomeno. Ma diverse analisi dei dati forniti periodicamente da Luminate, tuttavia, dimostrano che non è questo il caso. Il catalogo di Bruce Springsteen, per esempio, sulle piattaforme di streaming conta molto meno di quello di Taylor Swift. E quello di Bob Dylan impatta molto meno di quello di Drake. Inoltre, così come gli album di Drake e Swift vecchi più di un anno e mezzo scivolano nel catalogo, artisti di più anziane generazioni – artisti “legacy” – continuano a produrre nuova musica. Un nuovo pezzo di Springsteen è legacy se il parametro è l’artista, ma di fatto non lo è per definizione, data la sua recenza. Legacy. Shallow. Deep. Legacy è un altro concetto che avvelena le statistiche. Il catalogo non è un genere e la musica che vi si fa appartenere oggi, ieri apparteneva a una categoria diversa: ogni canzone, infatti, nasce come nuova, poi diventa catalogo. L’idea del limite dei 18 mesi è molto statistica e la sua arbitrarietà è sostanzialmente legata all’esigenza di stilare le classifiche di musica in un certo modo. Il confine tra attualità e catalogo musicale, tuttavia, sta dissolvendosi. Accade nella misura in cui le canzoni rimangono popolari più a lungo. E, istintivamente, gli osservatori e gli analisti tendono a imputare il fenomeno alla prevalenza della playlist nel consumo di musica: il formato stesso incoraggerebbe gli utenti ad ascoltare più a lungo le canzoni contenutevi. Ma: più a lungo rispetto a quando? Pre-streaming non si disponeva dei dati e delle statistiche che abbondano ora, e ogni tentativo di comparazione – per quanto orientato al buon senso – è privo di fondamento, perché mancano termini di paragone oggettivi. Si presume che un album, non appena veniva acquistato, fosse ascoltato ripetutamente nei giorni e nelle settimane successive. Ma non sappiamo per certo quanto. Sappiamo, semmai, che le statistiche di vendita e quelle di accesso sono tecnicamente non comparabili e che far equivalere un numero di stream generati all’acquisto di un album è, di nuovo, una forzatura statistica, introdotta per far quadrare le classifiche. E, per far quadrare i concetti dopo l’introduzione di una forzatura, si introducono i distinguo: siccome “catalogo” e “legacy” sono diventati termini non definitivi e un po’ scivolosi, ecco la ripartizione derivante dal limite dei 18 mesi: quella tra “deep” e “shallow” catalogue – catalogo superficiale e profondo. Vale più il catalogo profondo o quello superficiale? A osservare la corsa alle acquisizioni di cataloghi, si direbbe il primo. Però, valore a parte, conta più il primo o il secondo? A giudicare dalle statistiche degli streams generati, si direbbe il secondo. Poi arriva TikTok con i Fleetwood Mac, e rimescola tutto. Quando una canzone non è nuova di per sé, eppure lo diventa per chi la scopre in ritardo in un contesto nuovo. La rinnovata popolarità poggia su presupposti diversi da quelli del suo successo originale (nulla o poco, in effetti, ha a che fare con l’artista e il suo posizionamento, mentre deve tutto alla situazione in cui il tiktoker che l’ha resa di nuovo famosa l’ha collocata). Domanda finale: perché di tutto ciò ci importa qualcosa? Perché la dinamica del catalogo è centrale nell’osservazione e nell’analisi del music business, in quanto incorpora il tema del copyright, l’architrave dell’intera industria musicale, al pari degli autori. Perché nell’era dello streaming, al centro dell’economia della canzone, il catalogo incarna un fenomeno economico che mette d’accordo la nostra industria e la finanza: la prima si concentra e realizzare e pubblicare nuova musica, estendendo le quote di mercato e monitorando le trimestrali che derivano dal talento che attrae; la seconda, in una fase storica in cui gli interessi sono stati negativi (ergo: costo del capitale molto basso) ha promosso la canzone a asset class e da essa si aspetta ricavi ricorrenti. Con buona pace della soglia dei 18 mesi.