La misura del successo viene spontaneamente associata all’idea dei grandi numeri. Un criterio di misurazione applicato anche nell’industria musicale e che è parente stretto del concetto di scalabilità. Ma vale anche per i musicisti? Per quei milioni di musicisti che, è certo, non diventeranno mai celebrità ma non per questo intendono rinunciare alla musica come carriera, professione, mestiere sostenibile? L’artista è tale perché originariamente è mosso da un misto di talento e passione. L’idea di riuscire a fare la differenza per un gruppo di persone grazie alla sua opera è al centro della sua motivazione. Essere creativi, esprimere originalità, diventare significativi e venire giustamente compensati per questo. Eppure, nella realtà degli anni Venti, il tentativo di centrare questo semplice obiettivo - vivere di musica - si traduce in un’esperienza molto differente a livello pratico: si traduce in un’affannosa attività di generazione di migliaia di plays/streams per ottenere in cambio troppo pochi contanti rispetto agli ascolti ed allo sforzo, ma almeno un livello di popolarità e di interazione con i fans sufficiente per attrarli ai propri concerti, vendendo loro biglietti e magari, in loco, anche vinili e t-shirt. L’attività è affannosa e costosa perché presume la costruzione, l’alimentazione e la gestione di vari profili sui social media e l’incessante presentazione e proposta delle proprie canzoni a gestori di playlist dominanti. Tornando alla domanda, e raffinandola: il successo, dunque, è effettivamente misurabile in unità di streaming? Se sì, quante? E se fossero molte ma gli incassi restassero comunque di gran lunga inferiori alla soglia di sussistenza, si dovrebbe spostare in alto l’asticella? La definizione e il significato che si attribuiscono al successo nell’industria musicale contemporanea coincidono con qualcosa riassumibile in “molti milioni di streams e centinaia di migliaia di fans”. Il traguardo: fare raggiungere grandi numeri alle proprie canzoni e ai loro continui riconfezionamenti in EP, edit, feat. Ma, paradossalmente, è un criterio di successo ancorato a parametri del passato che mal si applica alla realtà dello streaming – la realtà dal punto di vista dell’artista. Altro, infatti, è sostenere che il suo obiettivo è campare di musica; altro, invece, è assumere che si misuri con questi numeri. In effetti, più che una metrica standard (del successo musicale) questa pare in realtà una metodologia – peraltro di dubbia applicabilità nel contesto di riferimento. Contare gli streams non è come contare i download o i CD venduti. Mele con pere. Economie disparate. Il mezzo e non il fine. Le economie di scala presuppongono costi, ricavi e margini unitari modesti che, valorizzati da enormi volumi, creano grandi guadagni. Ecco la formula del gioco della scalabilità: margini (bassi) x quantità (elevatissime) = business (gigantesco) E’ il gioco perfetto per i social media, per le piattaforme. Le quali vendono spazi pubblicitari a CPM bassissimi con miliardi di visualizzazioni, o maturano frazioni centesimi per transazione per miliardi di contatti da affiliazioni. Ed anche è anche il gioco delle label e dei publishers: i detentori di grandi cataloghi (cioè: operatori di larga scala) possono fare molti soldi sommando tantissime piccole royalties. Ma, escludendo le pochissime celebrità globali, non è il gioco dell’artista. Potrà anche esserlo stato quando, a fronte di bassi margini percentuali ma interessanti in valore assoluto, poteva moltiplicarli per grandi quantità (vendendo centinaia di migliaia di CD). Oggi la carriera dell’artista dipende dal mecenatismo dei fans. Che, una volta conquistati in modo genuino e autentico (acquisition), vanno poi mantenuti all’interno di una relazione continuativa (retention) affinché il loro sostegno prosegua nel tempo. La strategia di monetizzazione della fan base è conseguenza dello streaming che, soppiantando il possesso con l’accesso, ha reso gli abbonamenti prevalenti sulle singole transazioni. Il mecenatismo del fan, però, non funziona come il gioco della scalabilità, perché si attiva nel mezzo di un percorso che è una relazione. In ambiente digitale e online, un fan non nasce pagante: lo diventa. E all’artista – al pari di un marchio con i suoi clienti – tocca farsi valere con una USP (unique selling proposition) capace di fare per lui la differenza. L’artista deve chiedersi cosa vendere al fan, a quale prezzo e per quale ragione (una ragione relativa a ciò che la sua espressione artistica rappresenta per il fan). La scalabilità c’entra zero – anzi, numeri ridotti consentono relazioni e interazioni migliori e trasmettono un senso di esclusività. Quell’esclusività che, tradotta in approccio economico, implica ‘scarsità’: si paga volentieri un prezzo più elevato per un bene scarso. La creazione di scarsità è una strategia opposta al network effect tipico delle piattaforme (non migliore o peggiore: diversa). Consiste nel non rendere abbondante e disponibile e replicabile qualcosa, puntando non a grandi numeri grazie a margini modesti ma a piccoli numeri ad alto valore aggiunto. La domanda chiave in questo caso diventerebbe: con quanti pochi fans posso vivere di musica nel modo in cui desidero fare musica? – compreso il genere di appartenenza, le influenze da cui deriva, lo stile di vita ed i valori che evoca e le fasce di pubblico a cui si rivolge attraverso i canali di distribuzione più appropriati per raggiungerli. Essere remunerati per la capacità di correlare alla propria musica l’erogazione di beni scarsi è la sfida. Scarsi come una telefonata personale, un NFT, una cena, un’edizione speciale, un pass all areas.