Guy Moot, capo di Warner Chappell, ha recentemente affermato in occasione di una conferenza: “Non c’è mai stato un periodo più elettrizzante per lavorare nell’industria musicale, specialmente per editori e autori. C’è finalmente un ritrovato apprezzamento per il valore della canzone che porta con sé un nuovo mondo di opportunità”. Vero, stando alle stime di Goldman Sachs che proietta il valore del music publishing a circa $ 12 miliardi per il 2030. E, posto che Goldman Sachs potrebbe avere qualche interesse a pubblicizzare la floridità di un settore nel quale investe a vario titolo, ci sono in effetti solide ragioni per credere alla traiettoria di crescita di un settore che negli Stati Uniti, secondo dati pubblicati dalla NMPA (National Music Publishers’Association), ha generato un fatturato di $ 4,70 miliardi nell’anno solare 2021. Una cifra che rivela una crescita del 17,5% anno su anno (nel 2020 il fatturato era stato pari a $ 4,08 miliardi) ma, soprattutto, un incremento del 120% in 7 anni (i ricavi generati nel 2014 ammontavano a $ 2,15 miliardi). Quello più recente è un incremento che comincia ad avvicinarsi a quello della musica registrata che, sulla base di dati RIAA (Recording Industry Association of America), nel 2021 è cresciuta del 22% (da $ 8 miliardi a $ 9,8 miliardi). Quali sono i fattori incidono su una performance progressivamente migliore e comunque molto promettente per il music publishing (e, di conseguenza, per gli autori)? Principalmente due. Il primo è l’accordo Phonercords IV, di cui abbiamo riferito recentemente: è una conquista per il mondo del publishing che cambia in modo sostanziale la loro quota di ricavi dallo streaming rispetto a quanto accadeva fino al 2018. E, tra l’altro, prima ancora che si applichi la nuova tariffa del 15,35% sulle royalties da streaming, valida per il quinquennio 2023-2025, si noteranno i primi benefici effetti alla fine di quest’anno perché, con la decisione del Copyright Royalty Board relativamente al precedente ‘Phonorecords III’, si applicherà retroattivamente un incremento del dovuto agli editori dall’originario 10,5% al 15,1%. Insomma: Spotify, Apple Music, Amazon etc verseranno ricchi conguagli agli editori prima della fine del 2022. Il secondo fattore è suggerito da Guy Moot, che ha dichiarato anche: “Credo che questa crescita sia trainata in larga parte dalla globalizzazione della musica: la cultura ora è un asset con un nuovo repertorio creato localmente a cui si aggiungono gemme di un catalogo del passato che ritornano a essere successi attraversando i confini nazionali”. Una visione sensata, la sua, che pare incidentalmente del tutto allineata con quella del CEO uscente di Warner Music Group, Steve Cooper, la cui esternazione aveva contribuito a ispirare questo editoriale intitolato “La No Hit Parade dei giorni nostri”: ossia, che la globalizzazione del talento renderà le label meno dipendenti dai grandi successi e dai picchi di fatturato. In particolare, a detta di Moot, stiamo entrando nella “songwriter economy”: un ambiente e un settore “meno concentrato su creare successi, vincere premi e dominare le quote di mercato, e più orientato a creare una moltitudine di nuove opportunità globali che rimetteranno i soldi in tasca ai creatori e incrementeranno la consapevolezza riguardo alle canzoni e ai loro autori”. In questa visione si può inquadrare anche la bastonata che Moot ha diretto contro Merck Mercuriadis di Hipgnosis, mai citato ma chiaramente destinatario della sua riflessione: “Abbiamo notato tutti nuovi investitori entrare nel mercato e acquistare cataloghi di autori iconici per milioni di dollari. Mentre è grandioso che ci sia più gente che riconosce il valore vero della canzone, c’è una differenza enorme tra qualcuno con tasche capienti che mette i soldi sul tavolo per comprare un catalogo e editori come noi che hanno la responsabilità di prendersi cura dei propri autori e rivitalizzare le loro canzoni non solo per oggi ma per decenni a venire”. Moot ha volute segnare il territorio, insomma, analogamente a come aveva fatto mesi fa Mike McCormack di Universal Music Publishing, rimarcando come loro fossero – a differenza dei nuovi entranti – “impegnati a costruire i cataloghi del futuro”. Per quanto attiene alla “songwriter economy”, siamo curiosi di verificare. A fine 2023 sarà già abbastanza chiaro se gli autori avranno constato un cambiamento economico a loro favore.