(segue) In senso relativo, il vinile cresce più velocemente dello streaming. Così, purtroppo, anche il prezzo medio del prodotto. Nel 1977 la RIAA registrò il picco di vendite registrate per volume, con 344 milioni di unità di vinile distribuite, e nel 1978 rilevò il picco di prezzo ($ 7,3 per album, pari a una trentina di euro odierni calcolando l’inflazione). Per coerenza di paragone, la stima del prezzo medio di un album in vinile nel 2021 secondo la RIAA è stata di $ 25,19; con il dollaro circa alla pari con l’euro, siamo dunque a € 25 circa. I dati attuali, dunque, indicano una nuova media di prezzo al dettaglio che veleggia verso i trenta euro. Quali le cause? La più recente è l’accoppiata pandemia-guerra, che ha messo in crisi numerose componenti della filiera produttiva, sconvolgendo tempi ed economicità della catena di approvvigionamento. Sotto questo profilo, gli intoppi sono numerosi. I ritardi nello sdoganamento e nello scarico nei principali porti mondiali, dove i prolungati lockdown in tutto il pianeta hanno causato code interminabili che stentano a essere smaltite, sono diventati proverbiali. A monte di ciò, tuttavia, non mancano le risorse di cui l’industria è diventata carente. Il prezzo del petrolio in ascesa a causa del conflitto russo-ucraino determina l’aumento del prezzo anche di molti prodotti della petrolchimica, tra cui il PVC che è centrale per il vinile: il suo prezzo è triplicato in un anno. Il nickel, di cui la sanzionata Russia è uno dei maggiori produttori, scarseggia e mette a repentaglio la capacità di produrre le placche necessarie per stampare i dischi: il suo prezzo è raddoppiato in un anno. E la crisi economica e produttiva ha colpito anche gli impianti di produzione di quei fondamentali composti a base di carta da cui originano le parti centrali dei dischi, realizzate con una lega di cartone speciale capace di resistere ad alte temperature durante l’assemblaggio del prodotto finito, nonché le copertine. A tutto ciò si somma l’elemento aggravante per antonomasia, il costo in ascesa dell’elettricità in tutto l’Occidente. La causa endemica più rappresentativa, però, va cercata nella ridotta capacità produttiva rispetto alla crescente domanda. Una situazione che, in modo naturale, causa un aumento dei prezzi legato alla “scarsità” del prodotto. Dunque, a meno che si inneschi una rinnovata passione vintage per il CD, è difficile che si ripeta quello che accadde tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, che videro il sorpasso del compact disc coincidere con un calo dei prezzi del vinile. La ridotta capacità produttiva, che oggi causa tempi di attesa anche di diciotto mesi per la produzione di album in vinile, dipende dal fatto che, nel tempo, gli impianti di pressatura non solo non sono stati ampliati – la domanda in costante calo, all’epoca, non lo consigliava – ma hanno finito per rientrare nella più classica delle obsolescenze tecnologiche. Alcune grosse società internazionali, delle quali si parla qualche riga più avanti, hanno introdotto innovazioni tecnologiche riguardanti le presse, talvolta imponendo un’autentica inversione dei processi di produzione. Il che ha aiutato. Ma nella filiera ci sono anche altre fasi e fattori, oltre le presse. Una risorsa scarsa, si apprende, sono gli acetati, “le lacche”, poiché dopo l’incendio che quest’anno ha devastato la Apollo/Transco, è restata attiva per mesi praticamente solo la giapponese MDC. Gli acetati sono il collegamento tra la musica registrata e il disco finito, ossia il mezzo su cui la musica viene trasferita e da cui sono tratte le stampe. Tecnicamente si tratta di dischi di alluminio che vengono ricoperti di nitrocellulosa attraverso un nastro trasportatore, per poi essere lasciati ad asciugare, pronti per l’ispezione di qualità. Sono, purtroppo, altamente infiammabili, qualcosa che la già citata tragica disavventura della Apollo/Transco ha ricordato. L’acetato, al centro del processo di masterizzazione, è legato al tornio – lo strumento con cui si incidono i solchi. Si stima che ne esistano soltanto circa 300 in tutto il mondo, e possono essere gestiti soltanto da ingegneri altamente specializzati (anch’essi molto pochi, ricercati). Qui siamo quasi al culto per la corporazione, al punto che la comunità online che preserva e trasmette l’arte e le competenze per far funzionare queste macchine si chiama The Secrete Society of Lathe Trolls. Siamo alla tecnologia vintage, sì, ma pur sempre vitale per l’industria. La formazione di nuovi tecnici è essenziale, lenta a realizzarsi e, pertanto, causa di rallentamenti produttivi in tutto il mondo. Quando questa formazione avviene, peraltro, la elevata remunerazione di questi tecnici contribuisce a spingere verso l’alto i costi di produzione. Come per gli acetati, anche per le puntine utilizzate per tracciare i solchi sussiste uno stretto collo di bottiglia in fase di produzione, in buona sostanza appannaggio di un duopolio (anche in questo caso nippo-americano): la giapponese Adamant e la già citata e sfortunata statunitense Apollo/Transco. Verso la metà degli anni ’10, la produzione di vinile su larga scala si era concentrata a livello internazionale tra quattro operatori: GZ Media (Repubblica Ceca), Newbit Machinery (Germania), Viryl Technologies (Canada) e Pheenix Alpha (Svezia). Operatori ancora leader, con una spiccata predilezione per il sud degli Stati Uniti che si candida a trasformarsi nel nuovo e moderno polo della produzione di vinile. Per l’esattezza e Memphis e a Nashville (la prima una pietra miliare del blues e del rock dai tempi di Beale Street e di Elvis; la seconda da anni considerata la Music City per antonomasia) già operano a pieno regime la Memphis Record Pressing e la Nashville Record Pressing, entrambe di proprietà al 100% di GZ Media. E, al pari della concorrente United Record Pressing (anch’essa basata a Nashville), stanno espandendo la produzione a grandi livelli. La UPR, per esempio, si accinge a portare la sua produzione da 40.000 a 100.000 unità di vinile prodotte ogni giorno, grazie a maggiori spazi e a 48 nuove presse. La MRP ha investito quasi 29 milioni di dollari per incrementare la capacità produttiva a 125.000 unità giornaliere a partire dal 2023. Intorno a queste “majors” del segmento-vinile sta però nascendo una costellazione di indie del comparto, come la suggestiva The Vinyl Lab, che dall’aprile 2021 opera a Nashiville unendo in un unico locale una venue musicale e un impianto-boutique da sole due presse; come il club per abbonati online Vinyl Me, Please, che opera da Denver con un impianto di piccole-medie dimensioni. E non mancano le innovazioni a carattere ecologico: tra queste spiccano il progetto Green Vinyl Records, che in Olanda unisce otto società e istituti di ricerca che lavorano per ridurre l’inquinamento causato nella produzione di vinile, e una realtà (anche questa con base a Denver) come The House Plant, la cui missione è dichiaratamente “environmentally friendly”. Questo panorama, che mostra al contempo una forte spinta e notevoli criticità, non è destinato a competere con le dimensioni dello streaming, ma è molto significativo per almeno quattro ragioni. La prima, come evidenziato dal sentimento che i cosiddetti consumatori “2.0” hanno manifestato nello studio di MusicWatch, riguarda gli artisti indipendenti, che con album fisici riescono a migliorare le loro opzioni di monetizzazione. La seconda riguarda il mondo indie in generale, che soffre del vantaggio competitivo che le majors esercitano in termini di volume quando si tratta di riservare gli ormai preziosissimi slot di produzione. La terza riguarda l’opportunità economica che si lega a grandi marchi e cataloghi: il vinile può rivitalizzarli, e succede tanto all’estero quanto in Italia. La quarta è l’attenzione al green, da cui non si scappa: il vinile proviene da un’altra epoca, ma è con questa che deve fare i conti.