Quando alla fine dello scorso ottobre Spotify comunicò i suoi risultati del terzo trimestre 2022, fu debacle in borsa, con un -13% in un giorno solo. Quando la scorsa settimana comunicò quelli del Q4, il prezzo delle sue azioni decollò verso un +12,7% alla fine della giornata. Come un algoritmo, dunque? Non proprio, ma certi indicatori chiave di performance (KPI) e certi numeri spostano gli equilibri. Ecco quali, in sintesi: Ricavi: +21% anno su anno Margine lordo: + 25,3% anno su anno Numero di abbonati paganti: + 10 milioni Capitalizzazione attuale: circa $ 21,8 miliardi Oltre 5 milioni di podcast Oltre 300.000 audio libri Oltre 100 milioni di brani Con questi risultati Spotify ha azzerato l’emorragia economica che alla fine dello scorso anno l‘aveva portata a valere circa la metà di UMG, quando un tempo la sua valorizzazione era di gran lunga superiore a quella della label. E oggi la piattaforma conta su 205 milioni di abbonati paganti su base globale, che sono quasi la metà dei circa 490 milioni di iscritti complessivi. Nella call con gli analisti della scorsa settimana (che è integralmente trascritta e consultabile qui), il CEO Daniel Ek e il CFO Paul Vogel hanno spiegato cosa è piaciuto alla finanza al punto da restituire, in circa un mese, il 67% del suo valore originario all’azienda. Ossia, un fatto centrale: i margini superiori dell’80% rispetto alle previsioni confermate solo un trimestre fa. Che, a loro volta, altro non sono che il risultato del combinato disposto tra maggiori ricavi generati e minori costi sostenuti. E questi ultimi, a loro volta, sono dipesi da minori spese sui podcast, la cui lunga stagione di acquisizioni è forse alle spalle, mentre si tende a pensare che sia iniziata la stagione della loro monetizzazione. Lo abbiamo scritto ripetutamente: pur prescindendo dalle bellicose e non ancora del tutto chiare intenzioni di Lucian Grainge nei confronti dei modelli di business dei DSP, Spotify conta sui podcast per due ragioni: generano ricavi da pubblicità superiori (hanno un CPM più elevato) e si avviano a consentire margini di gran lunga superiori a quelli della musica registrata. Quest’ultima, si evince dai numeri pubblicati, consente infatti margini oggi attestati intorno al 28% e promette uno spazio di manovra risicato, giusto per ricorrere a un eufemismo (parliamo dei costi delle licenze). Quelli dei podcast, invece, già oscillano tra il 30 e il 35% e, spiega Vogel, tra un lustro potranno aumentare per assestarsi tra il 40 e il 50%. Il nuovo mantra di Daniel Ek: se il 2022 si annunciava come l’anno degli investimenti, il 2023 sarà l’anno dell’efficienza. Dice così, praticamente esattamente così, anche Mark Zuckerberg.