Quando si parla di fake streaming, tecnicamente si intende una manipolazione sul funzionamento delle piattaforme che avviene per mezzo di bot e/o account rubati e/o falsi artisti con l’obiettivo di catturare introiti nella fase della ripartizione delle royalties e dirottarne altrove i pagamenti. Seguono dettagli, considerazioni e tendenze evolutive in materia. Quanto pesano le frodi Un recente rapporto del Centre National de la Musique (CNM), organizzazione governativa che sostiene l'industria musicale francese, indica che nel 2021 oltre un miliardo di stream musicali, tra l'1% e il 3% di tutti gli stream generati nel paese quell'anno, erano fraudolenti. "I metodi utilizzati dai truffatori sono in continua evoluzione e miglioramento e sembra che la frode stia diventando sempre più facile da commettere", si rimarca nel rapporto. Nel leggere la notizia, l’esercizio che tra media specializzati e addetti ai lavori è sorto abbastanza spontaneo fare è stato quello di applicare questa percentuale ai dati di IFPI, la cui stima sui ricavi globali dello streaming nel 2022 è pari a circa 17,5 miliardi di dollari: l’applicazione della formula, quindi, suggerisce che gli streaming fraudolenti corrisponderebbero a 350 milioni di dollari di mancati introiti per i legittimi titolari dei diritti. La cultura sul fake streaming Il primo segno tangibile di come stia evolvendo il dibattito intorno al fake streaming riguarda, probabilmente, l’ormai conclamata accettazione del problema da parte dell’industria, al cui interno parlarne pubblicamente non è più considerato un tabù come fino a un paio di anni fa, quando tutto veniva affrontato in remote stanze. Purtroppo, come sostiene il CNM, gli strumenti necessari per commettere frodi in modo efficace e su larga scala sono più accessibili che mai ed esistono svariate possibilità per sfruttare le piattaforme. Paradossalmente, quanto più un DSP desidera offrire la migliore esperienza possibile all’utente, tanto più lavora per rendere facile l’accesso al contenuto e incentivare la creazione di modi interessanti per interagire con quel contenuto. Che, purtroppo, possono coincidere con modalità creative volte a manipolare quel contenuto allo scopo di sfruttarlo per un pagamento. Gli strumenti che facilitano la frode nel commercio elettronico o nella vendita di biglietti o nei servizi finanziari sono anche riproposti e riutilizzati per commettere frodi nello streaming. L’esempio più classico: la creazione di interi gruppi di bot online completamente automatizzati basati su cloud, qualcosa che 10 – 15 anni fa non si poteva fare. Beatdapp Di recente è entrata in scena Beatdapp, i cui cofondatori e co-CEO sono Morgan Hayduk e Andrew Batey, (Hayduk ha lavorato in passato come lobbista per l'industria musicale canadese nell'ambito della protezione del copyright, Batey ha lavorato per anni nel marketing digitale). Avevano inizialmente unito le forze per sviluppare uno strumento di audit che consentisse alle etichette di valutare le incongruenze tra i loro rapporti di vendita e i log dei server dei servizi di streaming. Per gestire discrepanze anche significative, hanno creato Beatdapp, il cui software incrocia e analizza enormi quantità di dati provenienti da etichette, distributori e servizi di streaming: l’obiettivo è identificare ed esaminare modelli sospetti, come ad esempio quando si riscontrano migliaia di account che riproducono le stesse 50 tracce. Quando si parla di “enormi quantità di dati” si parla di circa 320 miliardi di stream, che a loro volta scatenano l’analisi su circa 13 triliardi di punti-dati. Ciascuno stream individuale, infatti, porta con sé una mole di opzioni, decisioni e interazioni che legano l’utente al servizio in tempo reale: spaziano dalle modalità di ricerca in app alla scelta di partire da un artista o da un album o da una playlist o da un elenco di brani. I pattern, gli schemi, in genere hanno una loro coerenza: ecco dunque che se per ogni brano ascoltato si compiono gli stessi gesti che vengono ripetuti centinaia di volte in una settimana, la situazione puzza di frode. Il profilo tipico dei pirati Un tempo era plausibile assumere che la frode mirasse a influenzare le metriche e le classifiche: seguendo questa impostazione, era altrettanto plausibile puntare il dito contro gli artisti più famosi, poiché avrebbero avuto parecchio da guadagnarci in termini di visibilità. Ma se ci si sposta dall’immagine e dalla reputazione verso la pista del denaro, diventa naturale cambiare bersaglio e, anziché concentrarsi su major, grandi indie e artisti famosi, si scopre che oltre l'80% di ciò che viene individuato come frode proviene da contenuti… non musicali. Nel senso che si tratta di brani che non vengono pubblicati per il consumo popolare o per fare emergere artisti: lo scopo è squisitamente commerciale, e illegale. Anche per questa ragione quelli di Beatdapp – che, per inciso, hanno la sensazione che la percentuale di frode non sia tra l'1% e il 3%, bensì più vicina al 10% - si sono resi conto che buona parte del fake si verifica non tanto sulle piattaforme più popolari come Spotify, Apple, YouTube ma soprattutto sui DSP di media e piccola taglia, che sono effettivamente più facili per i truffatori da attaccare e dove è meno probabile che vengano scoperti; di più, da questi servizi otterranno un pagamento per stream spesso migliore. Il differenziale del 7% lì (tra il 3% del CNM e il 10% di Beatdapp) vale circa $ 1,2 miliardi. AI In tutto ciò, in che misura l'AI rende ancora più facile commettere questo tipo di attività fraudolente? Tecnicamente parecchio: i nuovi modelli di AI generativi sono in effetti molto potenti e consentono di creare contenuti su larga scala. Ma sarebbe fantastico che, essendo l’intelligenza artificiale uno strumento, tornasse utile anche come detector delle frodi. Chi ha da guadagnare dalla lotta alla frode? Dalla lotta al fake streaming, salvo i falsari, hanno da guadagnarci tutte le componenti della filiera dell’industria dello streaming. Se la difesa delle quote di mercato è importante per le label, allora lo diventa per definizione anche per i DSP. I quali devono anche preoccuparsi delle cattive raccomandazioni che si scaricano sugli utenti, peggiorandone l'esperienza: con ogni piattaforma che offre sostanzialmente lo stesso catalogo al consumatore, raccomandazioni di scarsa qualità spingono gli abbonati verso la concorrenza. Poco importa che siano attivate da un truffatore e non dal DSP, per il consumatore il cui account sia stato violato cambia zero: canzoni consigliate senza senso, nella sua esperienza, sono colpa della piattaforma. Infine, sotto traccia, non va trascurato perfino un potenziale profilo di diritto penale: le royalties basate su frodi di streaming attuate per mezzo di bot sembrano parte di un meccanismo ideale per il riciclaggio di “denaro digitale”. La relazione tra fake streaming e i diversi modelli di ripartizione delle royalties Usare il modello “user centric” anziché il pro-rata migliorerebbe la situazione? E’ spontaneo immaginare che eliminare il numero di stream come parametro principale che determina una quota di mercato dovrebbe di per sé sterilizzare la tattica usata finora dai falsari. Salvo che, come insegna la storia dell’economia sommersa e fuorilegge, ne inventino di nuove, più adatte ad attaccare il metodo UCPS. Per ora, anche se è ormai finito sotto attacco dalle major, continua a imperare il modello di streaming "pro-rata". Il suo meccanismo prevede che la parte delle royalties della quota di abbonamento mensile che l’utente paga a Spotify/Apple Music/Amazon/Tidal/Deezer etc. venga raggruppata, insieme al denaro proveniente dagli altri abbonati, in un “pool” centrale, con il denaro poi ridistribuito ad artisti ed etichette in base alla loro quota di mercato – cioè in base alla percentuale che le loro riproduzioni fanno registrare rispetto al totale degli stream su tutto il servizio nel mese. Questo sistema incentiva finanziariamente ogni parte coinvolta ad accumulare il maggior numero possibile di stream (anche illegittimi, ossia riprodotti da "stream farms"), con la conseguenza che una parte dei 9,99 euro al mese che l’utente paga affluisce sui conti di artisti che non ha mai ascoltato, erodendo introiti ai legittimi aventi diritto. Sarebbe auspicabile, invece, lavorare per attrarre il maggior numero possibile di ascoltatori, e non di stream. Una soluzione immediata per eliminare gli incentivi negativi di cui sopra e soffocare il fake streaming è il sopra citato modello "user-centric", ribattezzato "fan-powered" da SoundCloud: in questo caso le royalties generate da ogni singola quota di abbonamento vengono pagate solo agli artisti che gli utenti hanno ascoltato. In questo modo, pertanto, ripetute riproduzioni di brani da 31 secondi attivate da un singolo account di abbonamento cessano di diventare redditizie perché non si attingere più da un pool centrale. Warner Music Group e Merlin hanno aderito alla sperimentazione di SoundCloud. Al contrario, UMG (che sperimenta con Deezer e Tidal) è orientata verso un modello nuovo che il suo CEO Lucian Grainge ha ribattezzato “artist-centric”. Con lo user centric questo approccio ha in comune la tecnica anti-frode che disincentiva l’accumulo di grandi quantità di stream; però, anziché porre al centro del modello l’utente, vi pone l’artista. Che significa? Ci sono diverse opzioni e tra le mosse allo studio spiccano la proposta di riduzione delle royalties pagate per stream non-interattivi (ossia, quelli generati in modalità push dall’algoritmo) e di incremento del tasso di royalty, invece, per quegli streams cercati attivamente e poi suonati dall’utente. Il che colpirebbe anche il danno attualmente inferto dai ‘fake artist’ e dalla loro cosiddetta “production music”, spesso capace di primeggiare nelle playlist più famose basate sul mood. A ciò, infine, si sommerebbe il blocco di brani platealmente creati con l’intelligenza artificiale per rispettare i parametri minimi di pagamento (durata di 31secondi, uso smodato dei loop e nessuna variazione melodica sono le tipiche stigmate) – e per blocco non si intende l’esclusione dal pool dei pagamenti, ma proprio l’impedimento totale ad essere caricati in piattaforma. Concludendo La frode nello streaming, oltre a danneggiare direttamente chiunque conti per il proprio sostentamento sull'industria musicale, crea anche una pericolosa tendenza negativa in termini di strategia promozionale – paradossalmente, si potrebbe arrivare al punto in cui tutti credono di dover barare per avere successo. Ostacolare il fake streaming ha dunque uno scopo centrale: in un settore in cui è diventato più complesso – dopo avere creato qualcosa – riuscire a promuovere e fare emergere la propria musica, diventa fondamentale essere almeno pagati correttamente.