Dibattere sui contenuti della musica, sui suoi aspetti sociali, aggregativi, comunicativi e culturali, è un esercizio interessante che, però, inevitabilmente, quando la società è scossa da tragedie come quella dell’omicidio di Giulia Cecchettin, si può trasformare in un scivoloso terreno di propaganda. Non è la prima volta che accade e non sarà neppure l’ultima. Ospite della Milano Music Week, Gianmarco Mazzi, sottosegretario alla Cultura con delega allo Spettacolo dal vivo e alla Musica, sull’onda emotiva di quanto accaduto in questi giorni (l'omicidio di Giulia Cecchettin), ha invocato una forma di censura per alcuni testi rap di Shiva e Simba La Rue, dopo averne letti degli estratti ritenuti violenti e sessisti, e ha lanciato anche un appello all’industria della musica per impedire che questi artisti si esibiscano dal vivo. Potete leggere le sue parole e il resoconto dell’incontro cliccando qui. La censura Ne è seguita una risposta di Enzo Mazza, ceo di FIMI, che ha centrato una parte importante del problema e del rischio che si cela dietro le parole dell’onorevole: “Questo discorso è già stato fatto in America con il punk, censurare delle canzoni o degli artisti rende immediatamente quei testi e quelle voci ancora più ascoltate e supportate”. Lo scrisse anche Voltaire: “È la caratteristica delle censure più rigide quella di dare credibilità alle opinioni che attacca”. Ma il punto, per me, sorge ancora prima dell’inutilità di un blocco di sistema, è proprio alla radice: il rap e in generale la musica non possono essere soggetti a censura, di nessun tipo. Perché questo presupporrebbe che l’arte debba allinearsi a una morale, quando l’arte, in realtà, ha tutto il sacrosanto diritto anche di mettere in discussione, per raccontarsi e raccontare, i valori su cui si basa la nostra società. È proprio da questi cortocircuiti che sorge una profonda consapevolezza culturale. Un sistema che si mette in discussione, anche attraverso l’arte, cresce e matura. “Rivendico il diritto e il piacere di essere scandalizzato”, amava ripetere Pier Paolo Pasolini, uno dei più grandi pensatori italiani del ‘900, che ha subito la mannaia della censura. Tarantino, Tondelli ed Eminem Inoltre la censura prevede dei censori, dei controllori. Ma chi è davvero in grado di stabilire un filtro o un limite per cui una canzone, un film o un libro possano essere pubblicati o meno? Tarantino nel cinema, Tondelli nella letteratura, Eminem nella musica rap, con il loro modo di fare arte corrosiva e scorretta, se ci fosse stato in atto un “sistema mondiale alla Gianmarco Mazzi”, oggi probabilmente non ci sarebbero, perché ritenuti non idonei. Un disco come “Mr. Simpatia” di Fabri Fibra, ai tempi criticato e oggi considerato un disco-monumento del rap italiano, un progetto in cui il rapper veste i panni di un Joker contemporaneo che tra ironia e violenza vorrebbe veder bruciare il mondo, non potremmo ascoltarlo. Un sistema che si dice democratico non può prevedere un blocco dell’arte, della cultura o delle idee, ma può certamente fornire gli strumenti culturali per comprendere anche gli aspetti più controcorrente. Rap e violenza Detto questo, non voglio scappare dal problema, che esiste: la musica, in particolare il rap, ha senz’altro un sottobosco sessista e violento, il cui argine non si pone con la censura, ma con la cultura, la trasmissione di valori e l’insegnamento. I testi violenti e sessisti citati dall’onorevole non hanno certo la consapevolezza dei nomi degli artisti prima citati, ma restituiscono, purtroppo, un pezzo di realtà. Che non si vuole vedere, ma esiste. Qualche giorno fa, in una bella intervista, Don Claudio Burgio ha detto una frase significativa: “La realtà non fa schifo perché c’è Baby Gang, ma c’è Baby Gang perché la realtà fa schifo”. Poi prosegue: “Per me condannare le canzoni non ha molto senso, quello che bisognerebbe fare è lavorare prima, alle radici del problema. È troppo facile prendersela con il testo di un brano. Che cosa facciamo noi per evitare che alcuni giovani finiscano in giri negativi? Questo è il punto”. Il rap, da sempre, è un genere-spugna che si nutre, senza alcun filtro, di quello che ci circonda, nel bene e nel male. Piaccia o no, ci restituisce, come uno schiaffo o come una carezza, frutti fuoriusciti da quello che è stato seminato. È sul terreno e sui semi, come spiega Don Claudio, che bisogna lavorare. Leggi anche l'opinione di Marta Blumi Tripodi