“La distinzione tra musica ‘alta’ e popular? Non ha senso. Preferisco distinguere la musica bella dalla musica brutta. Perché in ogni genere, in ogni linguaggio, si può individuare la poesia, se c’è”. Non ha dubbi, Rita Marcotulli, quando viene chiamata ad esprimersi sugli steccati che, in passato, hanno separato la musica colta da quella popolare. Lei, tra le esponenti più note del jazz italiano a livello internazionale, ha spesso scavalcato gli steccati di genere, collaborando tanto con artisti di estrazione (in senso lato) “pop” come Pino Daniele, Bobby Solo, Max Gazzé e Yuman, quanto con giganti come Chet Baker, Billy Cobham, Kenny Wheeler e molti altri. “Penso, per esempio, ai Beatles, e alle ricerche che stanno dietro le loro produzioni, o ancora ai Pink Floyd, e all’influenza che hanno avuto su di loro sperimentazioni come la musique concrète”, spiega lei, già premiata lo scorso gennaio (insieme a Giulia Monti) con il premio NUOVOIMAIE ai Rockol Music Awards 2023: “Serve conoscenza, quello sì, perché più si conosce la musica più è facile esprimersi, ma non ci sono limiti da stabilire. Bill Evans diceva che l’arte vive sempre nel presente, e sono d’accordo: la musica usa e getta la si riconosce subito, specie dalla velocità con la quale invecchia”. “La matrice del jazz è l’improvvisazione”, racconta Marcotulli a proposito del suo percorso: “Durante le session ci metto sempre del mio, improvvisando, perché quando interagisco con altri artisti si crea una connessione difficile da spiegare, che non si trova in nessun altro genere musicale. Si entra in un’altra dimensione, dimenticandosi di ciò che si sta facendo. Mi viene in mente una bellissima espressione di Peter Erskine, con il quale ho avuto l’occasione di collaborare tante volte: mettersi al servizio della musica. E’ questo quello che facciamo, quando suoniamo”. Amando da sempre le contaminazioni, Marcotulli apprezza l’atteggiamento delle nuove generazioni di jazzisti. “I giovani musicisti sono molto più aperti mentalmente, rispetto al passato”, spiega: “Ascoltano molta più musica, e si sente in quello che fanno. Il jazz, allo stesso modo, ha avuto la possibilità di contaminarsi e sconfinare in altri ambiti come il rock - penso, per esempio, ai Radiohead, ma anche a tante altre realtà. Trovo ci sia molta più attenzione nei confronti di quello che viene dall’esterno, e trovo che sia estremamente positivo, rispetto a quanto i ‘talebani del jazz’ erano impermeabili a qualsiasi tipo di influenza”. I servizi streaming sono “compatibili” con il genere - molto particolare - che frequenta l’artista? “Spotify lo uso anch’io, e lo trovo comodissimo, perché permette di ascoltare letteralmente di tutto”, dice Marcotulli, che nella modalità di fruizione più popolare presso il pubblico di oggi ravvisa una sola, grande criticità: “Il digitale, per gli artisti, è penalizzante, ma non per le modalità di fruizione, quanto per le economie che muove a favore dei creativi”. Oltre alla prosecuzione di “I Caraviaggianti”, spettacolo dedicato all’opera di Caravaggio al quale hanno contribuito Stefano Benni, autore dei testi originali, e sette artisti internazionali - tra i quali il virtuoso giapponese del koto Mieko Miyazaki che toccherà il prossimo 20 novembre l'Auditorium Parco della Musica di Roma, Marcotulli è attualmente al lavoro su un nuovo album da studio: “Ci sto lavorando in queste settimane con l’orchestra diretta da Angelo Valori”, spiega, “Tra gli ospiti ci saranno Ares Tavolazzi [leggenda del basso in passato già al lavoro con, tra gli altri, Francesco Guccini, Area e Paolo Conte, ndr], Luca Aquino e altri. Al momento è ancora in fase di lavorazione: sarà un disco più ‘prodotto’, non come quelli tipicamente jazz, per i quali si entra in studio e si registra tutto nell’arco di una giornata…”.