E’ stato trovato senza vita nella sua abitazione - a Gallarate, in provincia di Varese - Paolo Carù (nella foto, per gentile concessione di Adelia Brigo), veterano della critica musicale italiana e titolare dello storico negozio di dischi inserito dal Guardian nella classifica dei migliori store indipendenti a livello globale. Come ricostruito dalle testate locale Varese News e La Prealpina, a scoprire il corpo di Carù - 77 anni - sono stati i dipendenti del suo negozio, preoccupati per non averlo visto al lavoro nella mattina di oggi, venerdì 14 giugno. Vano, purtroppo, l’intervento dei soccorsi, giunti sul posto. Popolare non solo a livello italiano, ma anche internazionale, per essere il titolare e gestore di Carù Dischi, storico negozio situato in piazza Garibaldi, a Gallarate, che ereditò - quando ancora era giovanissimo - dal padre nella seconda metà degli anni Sessanta, Carù è stato molto popolare tra gli appassionati di musica anche in veste di critico musicale. Insieme a Riccardo Bertoncelli autore della fanzine Pop Messenger Service nei primissimi anni Settanta - e sempre insieme a Bertoncelli testimone oculare della disastrosa serata che ebbe per protagonisti i Led Zeppelin al Vigorelli di Milano nel 1971 - Carù è stato il co-fondatore di due storiche testate musicali, il Mucchio Selvaggio (nel 1977, insieme a Max Stefani e Aldo Pedron), e - successivamente, nel 1980 - il Buscadero (insieme a Pedron). Intervistato nemmeno un mese fa da Doppiojazz.it, Carù si definiva un “music lover” prima ancora che un critico o un negoziante. “Amo la musica, mio padre aveva un negozio, è stato un passaggio naturale, dalla scuola al negozio”, aveva detto: “Il giornalismo è arrivato dopo”. Rigoroso dal punto di vista editoriale - “Nel Buscadero ci occupiamo di quello che ci piace, non di quello che va di moda” - Carù non sentiva la necessità di andare incontro ai gusti del grande pubblico nemmeno in veste di negoziante: “Il mio mestiere è vendere dischi ma la voglia di dire a chi mi chiede Ramazzotti di andarlo a comprare altrove è tanta”, aveva raccontato al Corriere della Sera nel 2016: “Come per i Modà e i Negramaro. Solo a sentire il nome rischio un mancamento. Ho avuto la fortuna di trasformare una passione in un lavoro e la mia filosofia da sempre è indirizzare le persone verso la musica di qualità”. “Io, fin da ragazzino, e grazie a mio padre, mi sono appassionato alla musica. La musica per me è diventata ragione di vita e, di conseguenza ho cominciato a collezionare dischi”, aveva ribadito a Pangea nel 2022: “Il lavoro in negozio è nato di conseguenza. Più che stare attenti a cosa veniva pubblicato andavo a cercare, ma lo faccio ancora, dischi strani o autori non popolari, musicisti strampalati, eccetera. Il giornale ha seguito questi dettami: musicisti che ci piacevano e ci piacciono, famosi e non, anzi più sconosciuti, soprattutto in Italia. A me interessa la qualità della musica così non ho mai guardato le classifiche o i dischi maggiormente sponsorizzati dalle case discografiche”. Per gentile concessione di Classic Rock di seguito pubblichiamo integralmente l’intervista a Paolo Carù di Luca Fassina pubblicata all’interno del numero 133 di Classic Rock nel marzo del 2023. Come ha iniziato a lavorare nell’azienda di famiglia? I miei genitori hanno aperto una libreria nel ’42, poi hanno inserito i dischi tra gli anni Quaranta e Cinquanta. Quando ero ragazzo, negli anni ’60 dominava il 45 giri. Avevamo una compagnia che si ritrovava ad ascoltare musica e una sera un amico ha messo sul piatto AFTERMATH dei Rolling Stones: è stata la prima volta in cui abbiamo assaggiato un album, da lì il vinile è diventato parte integrante della nostra vita di musicisti e musicofili. Nel 1967 ho piantato gli studi e mi ero messo a fare il venditore nel negozio di papà. Ho aperto questo negozio nel 1974. Come sceglieva i dischi da vendere? Cercavamo di leggere i giornali stranieri per capire cosa usciva. I fornitori esteri ti davano liste di dischi che stavano per essere pubblicati. A un certo punto ho creato le mie riviste, per spiegare il perché ci fosse una certa musica e perché ci piaceva, per farla conoscere. Abbiamo preso spunto dal «Rolling Stone» americano, che è stata la prima rivista importante che ho avuto fra le mani. Però dopo abbiamo fatto le cose come volevamo noi, anche perché, scusa, eravamo tutti appassionati: il «Mucchio Selvaggio» nel 1977, «L’Ultimo Buscadero» nel 1980… In Italia in quel periodo le riviste non erano così specializzate. Come avete vissuto l’avvento del Cd? Il Compact disc ha preso abbondantemente piede verso la metà degli anni Ottanta, anche grazie a un momento di flessione del vinile. L’abbiamo accettato, ma non abbiamo mai smesso di vendere vinili e il tempo ci ha dato ragione: nel nuovo millennio dal 2005 c’è stato un desiderio di tornare all’album. Anche con l’avvento della musica scaricabile non li abbiamo tolti dagli scaffali, l’appassionato ha bisogno di un oggetto fisico da toccare. Oggi il vinile è tornato di moda, anche tra i giovani; il problema è che le case discografiche hanno aumentato i costi, in alcuni casi anche in modo esagerato. Tenendo prezzi più moderati, ne venderebbero molti di più. Oggi quanti vinili avete in negozio? Più di cinquantamila, ma ci sono anche quelli del mio papà, che di musica classica ne aveva una valanga, e poi la mia collezione privata. Quali sono i più rari che ha in vendita? Quando li ho, non mi rimangono a lungo. Ho venduto in quantità industriale molti classici, dai Rolling Stones a Dylan, dai Deep Purple ai Pink Floyd… Van Morrison è stato uno su cui abbiamo scommesso molto. Però sempre musica di qualità. Certe cose non le tengo proprio e quando me le chiedono la voglia di rispondere “valla a comprare altrove” è tanta. Il disco più costoso che ha venduto? Mi è capitato di vendere dei dischi molto particolari, edizioni di jazz d’epoca a cinquecento o mille euro, ma sono casi abbastanza rari. Ogni tanto qualcuno mi chiede vecchie edizioni, dischi fuori catalogo… una volta un cliente voleva il primo Hendrix inglese della Track, ma quando abbiamo controllato il prezzo ha rinunciato: volevano cinquemila sterline. Cosa succederà al Carù di domani? È una bella domanda, perché adesso non è più come una volta e non so fino a quando andremo avanti. Negli anni Ottanta e Novanta al sabato si faceva fatica a entrare, c’era la coda che aspettava l’apertura… erano altri tempi. Ora diventa sempre più difficile, non c’è più quel seguito che c’era una volta. Sto pensando di donare la mia collezione a una fondazione, ma non ho ancora individuato quella giusta. Parlandone con il mio amico Riccardo Bertoncelli si parlava della Svizzera, ma non abbiamo mai approfondito.