In attesa di capire cosa abbia spinto i White Stripes a tornare sui propri passi, del rapporto tra l’attuale presidente eletto degli Stati Uniti Donald Trump e la comunità musicale americana sono rimasti impressi, al pubblico, gli screzi via social con le grandi star - la “gattara” Taylor Swift su tutte - e la sfilza di diffide inoltrate allo staff del tycoon da un’infinità di aventi diritto durante la campagna elettorale per escludere le rispettive canzoni dalle playlist utilizzate durante i comizi. Questo, unito agli endorsement di star come Bruce Springsteen, Jon Bon Jovi, Michael Stipe e Lady Gaga a Kamala Harris, ha spinto i media generalisti a rappresentare il settore musicale americano apertamente schierato coi democratici e strenuamente contrario alla rielezione del candidato repubblicano. Se questa istantanea può essere ritenuta senz’altro valida per quanto riguarda la comunità artistica, sul fatto che l’industria musicale americana possa accogliere come una sciagura la rielezione di Trump iniziano ad affiorare un paio di dubbi. Qualche giorno fa, a margine della presentazione dell’ultima trimestrale, Live Nation - la prima società per quote di mercato nei settori di live promoting e ticketing, un vero e proprio gigante che controlla, oltre che le produzione e le operazioni di biglietteria, anche una grande quantità di venue di prima grandezza sparse per tutto il paese - ha lasciato intendere, nemmeno troppo velatamente, di confidare nel ritorno di Trump alla Casa Bianca per neutralizzare il procedimento per abuso di posizione dominante avviato nei propri confronti dal Dipartimento di Giustizia. “E’ ancora troppo presto per sbilanciarsi”, ha dichiarato il CFO di Live Nation Joe Berchtold: “Sicuramente (con il ritorno di Trump, ndr) ci aspettiamo il ritorno a un approccio ai temi antitrust più tradizionale, che riduca al minimo l'intervento del governo sui mercati. Senza entrare nei dettagli, alcune parti del caso che ci vede coinvolti crediamo riflettano una filosofia molto più interventista di quanto ci si aspetterebbe da un'amministrazione repubblicana. Ovviamente, la richiesta di dividere Live Nation e Ticketmaster sarebbe un esempio di quell'approccio altamente interventista”. Un altro fronte sul quale Trump può favorire - più o meno consapevolmente - l’industria musicale, nello specifico il comparto della musica registrata, è quello di TikTok. Il social di Bytedance rischia di dover cessare le attività sul territorio americano entro il prossimo 19 gennaio in virtù del Protecting Americans From Foreign Adversary Controlled Applications Act, testo approvato dall’amministrazione Biden che impone alla conglomerata cinese di cedere (algoritmi compresi) la porzione americana della propria piattaforma a un’azienda locale. Appurata la determinazione di Bytedance a non arrendersi alla vendita coatta, una potenziale quanto insperata svolta a favore del social potrebbe venire proprio dal ritorno di Trump nello Studio Ovale. Secondo diversi report pubblicati in questi giorni dal Washington Post, dal New York Times e dall’Associated Press il presidente eletto - che, ironia della sorte, nel 2020 firmò un ordine esecutivo atto a vietare TikTok negli USA, poi andato a vuoto - potrebbe scegliere di non applicare il decreto, o addirittura - se promulgato prima del suo insediamento effettivo - revocarlo con il supporto del Congresso. Il social - che secondo la responsabile della prima campagna elettorale di Trump, Kellyanne Conway, ha giocato un ruolo molto importante nella sua rielezione, e che ha nel miliardario e convinto sostenitore di Trump Jeff Yass uno dei suoi investitori - è legato a doppio filo all’industria della musica registrata. TikTok, che nelle ultime settimane è riuscito a “spaccare” il fronte degli indipendenti di Merlin negoziando (e chiudendo) accordi di licenza con le singole etichette, ha siglato intese per il consumo dei repertori con le principali realtà discografiche internazionali, prima tra tutte Universal Music, che ha negoziato un contratto dopo un lungo braccio di ferro iniziato col ritiro dei propri cataloghi dalla piattaforma. E proseguito con la clamorosa insubordinazione di Taylor Swift, che - sotto contratto con UMG, benché proprietaria dei suoi master - non aveva obbedito all’ordine di scuderia pur di non rinunciare a TikTok per promuovere il suo “The Tortured Poets Department”, all’epoca prossimo all’uscita. Perché - non è un mistero per nessuno - TikTok resta, nonostante tutto, uno dei più formidabili veicoli di discovery musicale oggi sulla piazza, al quale - soprattutto nel primo mercato discografico al mondo - non riescono a rinunciare né gli indipendenti né la più grande popstar vivente. Che, in questi giorni, vive il paradosso di avere come avversario la persona che potrebbe fare un grande favore e lei, a tutti i suoi colleghi e alle decine di migliaia di persone che lavorano con lei e per lei dietro le quinte.