Negli ultimi anni, il tema della salute mentale è diventato uno dei più dibattuti, anche nel settore musicale, grazie soprattutto alle iniziative intraprese da artisti e operatori del settore, tra cui Rockol. Infatti, nell’ambito della Milano Music Week, da tre anni a questa parte, Rockol ha organizzato una serie di incontri con addetti ai lavori per confrontarsi su questa importante tematica. Di seguito l’intervista di Gianni Sibilla a Luca Daher, Managing Director di Believe Italy. Che cos'è la salute mentale per te e cos'è la salute mentale nell’industria musicale? Oggi la salute mentale è un’area di grande attenzione, e per fortuna siamo all'inizio di un percorso che ci aiuterà a capire meglio come stare bene mentalmente, partendo da chi siamo. Il lavoro occupa una parte preponderante del nostro tempo e, di conseguenza, una delle sfide più importanti è imparare a parlarne apertamente per supportarci reciprocamente nel vivere meglio anche l'ambiente lavorativo. Fino a qualche anno fa, la salute mentale non era un tema centrale. Chi lavorava nel settore musicale doveva solo lavorare, senza lamentarsi. Cosa ricordi di quegli anni? Sono arrivato tardi in questo settore, e credo sia stato un bene per me. Mi ricordo che, inizialmente, ho avvertito una serie di sensazioni senza rendermi conto dei problemi da dover affrontare anche nella vita quotidiana. Ho avuto la fortuna di vivere una carriera abbastanza rapida, anche quando lavoravo in pubblicità. Quando inizi a gestire persone subentra una responsabilità emotiva non indifferente, soprattutto se sei coinvolto personalmente. All'epoca non era facile mostrare le proprie fragilità. Un episodio illuminante per me è stato durante il periodo in cui lavoravo in Spotify: una conversazione con dei colleghi francesi mi ha fatto riflettere sul ruolo che volevo avere nel lavoro. Mi sono reso conto di essere diverso dal modello tradizionale di manager e ho deciso di accettare questa diversità. Affrontando difficoltà personali, ho iniziato a capire quanto fosse importante parlarne apertamente. È facile predicare bene e razzolare male, mostrando interesse per la salute mentale di un collega o di un artista, ma senza realmente mettersi in gioco. Anche oggi, partecipare a iniziative come questa mi aiuta a sostenere gli altri e, contemporaneamente, me stesso. L’industria musicale, però, pecca in due aspetti: tutto è personale, perché lavoriamo con le persone. Il prodotto qui sono le persone, e non persone qualunque, ma artisti dotati di una sensibilità incredibile. È il tema di cui si parla da decenni del complesso intreccio tra fragilità personali, comportamenti errati, dipendenze e creatività artistica. Questa dinamica, a un certo punto, ha iniziato a pesarmi. Quando parlo con alcuni ragazzi con cui lavoro, al di là delle differenze generazionali – perché le nuove generazioni stanno affrontando un futuro percepito spesso come incerto e spaventoso – noto che la situazione è ancora più delicata per gli artisti. In passato mi è capitato di parlare con clienti importanti, come il direttore marketing di un brand prestigioso, e alla fine della giornata lui tornava a casa dalla sua famiglia e, anche se le vendite di pasta non andavano come previsto, la sua vita personale non ne risentiva drammaticamente. Qui, invece, mi trovo davanti a un altro tipo di realtà: artisti che, dopo appena due singoli che non hanno avuto il successo sperato, ti guardano negli occhi e ti dicono "sono finito". Affronto decisioni contrattuali difficili e vedo artisti esposti pubblicamente in maniera molto intensa. Abbiamo parlato di Sanremo, e sappiamo quanto possa essere centrale nella carriera di un artista. Accompagnarli in quel contesto è una vera tassa emotiva. Sto lavorando duramente per essere di supporto, anche solo in minima parte, perché questa identificazione estrema tra successo e fallimento è unica del nostro settore. In più, ci sono le ore di lavoro. Come azienda, cerchiamo di proteggere i nostri colleghi, ma poi capita che un venerdì notte alle tre, una release abbia un problema e l'artista- che vive per quello - ti chiama. Tu, cosa fai? Non rispondi perché ci sono le regole di lavoro? È complicato. Abbiamo chiara l’idea di dove siano i problemi, ma le soluzioni richiedono uno sforzo collettivo. Dobbiamo prenderci per mano tutti: a livello associativo, aziendale, di sistema e insieme agli artisti. C’è tanto lavoro da fare. L’industria musicale vive di risultati, e questa pressione è enorme. Come lavora Believe su questi aspetti? Ad esempio, una cosa che i membri più esperti del mio team mi avevano già segnalato è l'importanza di imparare a dire “no” nel modo giusto. Tuttavia, a volte ciascuno di noi deve affrontare certe situazioni in prima persona per comprenderle appieno. Dire “no” non basta: bisogna saperlo contestualizzare, spiegare e aprirsi al confronto. Nei miei primi anni, ero guidato dall'entusiasmo per l’arte, la cultura e la musica, ero così coinvolto emotivamente che tendevo a lanciarmi oltre l’ostacolo senza pensarci troppo. Con il tempo, però, e grazie ai miei colleghi, molti dei quali decisamente più competenti di me, ho capito che non è sufficiente preparare solo l’artista: bisogna preparare la persona. Affrontare con lui le difficoltà, i momenti di crisi, e soprattutto offrire una visione realistica. Non possiamo promettere qualcosa di cui non siamo certi, ma possiamo impegnarci ad avvicinarci il più possibile a quell'obiettivo. Per esempio, imparare a dire “no” significa anche rifiutare certe promesse. Ho citato Sanremo: promettere a un artista che parteciperà, che raggiungerà obiettivi specifici, e poi trovarsi il giorno dopo a dover comunicare che le cose sono andate male ha un impatto. Per questo, oggi sono molto attento a evitare l’overpromise. Non dobbiamo alimentare l’hype neppure durante la firma di un contratto: quel "Tranquillo, ti porteremo a conquistare il mondo" può trasformarsi, un anno dopo, in un artista droppato. È un’espressione dura, ma descrive bene il dramma che possiamo creare nella vita di queste persone. Ed è proprio per questo che oggi cerco di essere molto più attento. “Droppato” è un termine davvero brutto. Di tanto in tanto si utilizzava un altro termine, cleaning, che secondo me è persino peggiore: fare pulizia di ciò che non funziona. Però, di fatto, come in tutte le industrie, si vive di risultati, soprattutto in questo momento. I numeri sono una croce e una delizia: l'industria è cresciuta enormemente, ma ha anche generato una pressione sociale sui risultati gigantesca. In Believe come affrontate queste dinamiche? Il gruppo di lavoro di cui faccio parte si è formato e ha iniziato a costruire il proprio modus operandi durante il secondo lockdown. Questo, per quanto difficile, ci ha permesso di creare il nostro set di regole e di modalità di collaborazione in un periodo già complesso. Per esempio, noi ci fidiamo delle tempistiche di release decise dagli artisti. Abbiamo un artista importante che, tecnicamente, avrebbe dovuto pubblicare un album ad aprile di quest'anno, ma ci ha presentato lo stato del progetto spiegandoci le sue ragioni per cui non era pronto. Certo, per un'azienda ci sono aspetti finanziari da considerare, ma seguiamo sempre la volontà dell'artista. Detto questo, ci tengo a sottolineare che anche noi commettiamo errori. Esistono contratti che sono impegni presi, e qui forse non sempre riusciamo a fare abbastanza education verso gli artisti per spiegare che non si tratta di ostacoli, ma del rispetto di accordi. Tuttavia, si può discutere: solo quest'anno abbiamo rivisto le strategie con una decina di artisti, cercando di concentrarci sul numero giusto di progetti... A Sanremo, molte persone ci hanno fatto i complimenti per il lavoro svolto con La Sad, e questo mi ha reso davvero felice. È giusto riconoscere il merito ai tre ragazzi di La Sad, che hanno affrontato un peso emotivo enorme per veicolare un messaggio importante. Anche noi del team eravamo presenti, in sette, otto, nove persone, per supportarli nei momenti difficili. È vero che oggi siamo aziende quotate con investitori da soddisfare, ma possiamo mantenere l'attenzione umana senza trasformarci in meri venditori di prodotti. Non voglio banalizzare, ma dobbiamo prenderci cura delle persone. Forse sarà il mio lato più "vecchio" che emerge, ma siamo tutti padri, fratelli, compagni. Dobbiamo essere ciò che vorremmo per i nostri cari. Questo approccio è interessante, ma capita di dover mettere dei limiti. Come gestite il confine tra il rapporto professionale e personale? È vero, bisogna porsi dei limiti. Dopo aver conosciuto un artista, spesso solo dopo la firma del contratto, ci siamo imposti alcune regole: se non c'è stato un incontro di persona o una valutazione chiara del progetto musicale, non firmiamo. Purtroppo il mercato è molto competitivo, e talvolta le buone maniere e la condotta morale del business vengono messe da parte. Noi cerchiamo sempre il confronto, ma se non ha senso, ci fermiamo. In passato, ho chiesto di lavorare con un artista noto per essere difficile, perché credo che ogni talento meriti di esprimersi. Tuttavia, mi sono accorto che stavo schiacciando emotivamente il mio team, che subiva continue pressioni. Quando non c’è riconoscimento, bisogna fare scelte difficili. Sul tema del lungo periodo, mi piacerebbe approfondire di più: forse dovrebbero esistere contratti più flessibili, un po’ a tempo e un po’ legati alle release. Oggi siamo sfuggiti molto da questo modello, ma per anni è stato prevalente il pacchetto da sei singoli senza opzioni. Ti vengono consegnati, non hai tempo di lavorarci adeguatamente, escono e, se va bene, bene; se no, amen. A quel punto l'artista a 23 anni ha fatto il giro di Warner, Universal, Sony, Believe, e poi magari passa a Tunecore, Distrokid. Questo non è mai un buon segnale per gli addetti ai lavori, e l'artista diventa vittima di se stesso o di chi lo rappresenta in quel momento. Sarebbe utile per tutta la filiera regolamentare un po' di più le regole di ingaggio e di contatto: oggi è tutto troppo schiacciato, e trovare un equilibrio gioverebbe a tutti. La salute mentale è un tema cruciale per tutta la filiera musicale, dagli artisti agli operatori dietro le quinte. Qual è il vostro approccio? Ci si prova, però mi rendo conto che la volontà non sempre porta dove si vorrebbe, e sicuramente ci sono approcci che non aiutano tutti. Tuttavia, cerchiamo comunque di fare il possibile per rimuovere lo stigma. Noi, come Believe, non solo ne parliamo apertamente, anche nella leadership, ma personalmente non ho alcun problema a condividere un periodo in cui ho affrontato un episodio depressivo, i miei problemi e il fatto che mi rivolgo a specialisti. Credo che questo dimostri che, proprio nel momento in cui ho provato più paura e mi sono tenuto tutto dentro, anche rispetto ai miei cari, oggi, quando sono sereno nel parlarne, mi sento più utile agli altri. Mi sembra di essere più onesto, e penso che questo possa essere d’aiuto. Non so perché, ma credo che quando sono aperto su questi temi, posso essere di supporto per chi ne ha bisogno. Non sono una persona che esplode facilmente (ma lasciamo che lo dicano i miei colleghi)… Mi sforzo di chiedere agli altri di fare lo stesso. Abbiamo anche dei programmi favoriti dall'HR, con un certo numero di sessioni a disposizione per chi non ha ancora uno specialista a cui rivolgersi, grazie a un’associazione che si occupa di supporto psicologico. Prima ho citato La Sad, ad esempio: è stato fantastico collaborare con loro su un progetto di supporto telefonico, affrontando temi come la depressione e la prevenzione del suicidio. Cerchiamo di integrare questi contenuti dove riteniamo opportuno e, soprattutto, cerchiamo di parlarne, aiutandoci tra di noi. Questo è il nostro tentativo. È importante parlarne. Bisogna sempre ripeterselo, perché è più facile parlare di se stessi che degli altri, ed è meglio evitare di fare il "solone". Anche se lo sentivo dire, non ci credevo, perché sono introverso e mi sentivo difettato. Eppure, è vero: man mano che ci contagiamo positivamente su questo fronte, credo che possiamo solo aiutarci. Non a caso, insieme a Christian Mida, un artista con cui lavoro e con cui ho un rapporto di rispetto, durante un viaggio di lavoro ci è capitato di parlarne, cercando di capirci meglio. Io stavo cercando di fare il mio lavoro e lui il suo, ma poi è diventato un contatto personale per affrontare insieme le sfide che entrambi viviamo. Continuiamo a farlo, perché più ne parliamo, più altre persone si sentiranno a loro agio, spero. Questo contenuto fa parte della campagna di sensibilizzazione di Rockol sulla salute mentale: “Rompi il silenzio” - La salute mentale nell’industria musicale italiana - #oltrelostigma Un ringraziamento particolare a Believe per la collaborazione.