Varie etichette e distributori sono scesi sul piede di guerra contro Napster a causa dei suoi ritardi nei pagamenti delle royalty, ritardi che oscillerebbero da alcuni mesi fino a ben oltre un anno. Napster, che assurse alla notorietà globale nel 1999 come la piattaforma pirata che avrebbe sconvolto l’industria musicale, dal 2022 è guidata dal CEO Jon Vlassopulos ed opera da tempo come piccolo servizio di streaming autorizzato (un milione di utenti stimati). L’episodio si inquadra in un contesto non inedito, in cui operatori di minori dimensioni rispetto ai grandi player globali stentano a reggere il passo con i costi delle licenze. Recentemente, etichette e distributori avevano ad esempio segnalato problemi simili con Boomplay, piattaforma con una vasta base di utenti in Africa (98 milioni di utenti attivi mensili), con Sony Music che ha poi rimosso il proprio catalogo a dicembre. E prima ancora era stata una causa contro TIDAL nel 2021 a fare rumore, quando emerse che la piattaforma aveva 127 milioni di dollari di passività, per lo più in forma di royalty non pagate alle etichette (la situazione sarebbe stata poi risolta nel 2023 dopo l’acquisizione della piattaforma da parte di Block). Napster fu lanciata nel giugno del 1999 come servizio di file sharing che consentiva agli utenti di scaricare brani gratuitamente, ma si ritrovò presto coinvolta in cause legali per violazione del copyright intentate da nomi di peso come RIAA, Metallica, Dr. Dre; chiusa nel 2001, l'anno successivo la piattaforma fu acquistata da Bertelsmann per trasformarla in un sevizio legale, ma un giudice bloccò la vendita. Seguì un percorso travagliato: Napster divenne prima proprietà di Roxio, poi di Best Buy, poi di Rhapsody, poi dell’app di concerti in realtà virtuale MelodyVR e infine, nel 2022, di Hivemind Capital Partners e della società di criptovalute Algorand.