Ciò che sappiamo del nuovo tier che Spotify si appresta a lanciare quest’anno lo abbiamo appreso da Bloomberg: è un’anticipazione, è probabile che sia parziale, ci limitiamo ad analizzare le informazioni disponibili. In coerenza con quanto Lucian Grainge di UMG va a sua volta anticipando a proposito della nuova fase dello streaming da lui ribattezzata Streaming 2.0 e dedicata alla monetizzazione dei superfans, la piattaforma svedese - che non sarà l’unica tra i DSP a farlo - lavora ad un’offerta dedicata a quel segmento, un'offerta che la testata finanziaria americana sostiene che potrebbe avere un prezzo di $ 18/mese. Il cui nome per gli addetti ai lavori è, oggi, “Super Premium”. Un terzo livello che si aggiunge a quello free e a quello premium (infatti, tradizionalmente, il modello di business di Spotify ricade nella categoria ‘freemium’). Rispetto alla fornitura standard riservata gli abbonati paganti fino ad oggi, le nuove caratteristiche del Super Premium sarebbero principalmente tre: anteprime di uscite / pre-ascolti prima della release ufficiale funzionalità di editing dei brani accesso esclusivo alle prevendite di biglietti. Ciascuna impatta a modo proprio su contenuto, marketing, target, aggiunta di valore e protagonisti della filiera coinvolti. Le anteprime, quando sono monografiche, sono un vecchio classico introdotto dai fan club decenni fa. Nel caso di Spotify dovrebbe trattarsi, invece, di opzioni trasversali: chi accedesse a quel livello di abbonamento, troverebbe molte opzioni di pre-ascolti di brani e album e, con l’aiuto dell’algoritmo, dovrebbe potere notare quelli giusti per i propri gusti. Quindi è un tipo di benefit indirizzato ai ‘music fans’ più che agli ‘artist fans’. Se è concepibile che i primi possano essere intermediati da un DSP che opera sempre più come un gatekeeper, è difficile che la proposta sia attraente per i secondi, poichè la loro relazione con gli artisti preferiti tende a essere diretta. Se sono un superfan di Nick Cave non pagherò il 50% in più di abbonamento per accedere a molte anteprime (tra cui, eventualmente, la sua) che non percepisco come reale valore aggiunto. Se sono un impallinato della musica in generale, attento alla sua attualità e alle sue novità, allora sono più in target. L’aspetto strategico delle anteprime è la reintroduzione, per quanto parziale, di un elemento che pre-streaming è stato un fattore chiave per la musica: la scarsità. La scarsità aiuta a percepire valore aggiunto, genera status per chi ne supera i limiti e attiva meccanismi di affiliazione nelle comunità di appartenenza. La scarsità è l’esatto opposto dell’abbondanza con la quale la musica arriva oggi a miliardi di consumatori passivi ma paganti. L’editing dei brani consisterebbe in una valigetta di strumenti che permettono di accelerare e rallentare i brani, entrare in qualche stem, remixare eccetera. Ad oggi non è una specialità dei DSP, perchè essi hanno sempre avuto come target principale i consumatori e non gli appassionati; sono, invece, una delle specialità di piattaforme di social media come TikTok, che si rivolgono ai creatori. E sono gratis. La demografia che utilizza maggiormente l’editing musicale online coincide con la Gen Z. E, come è tipico di una delle sue prerogative principali, questa fascia di utenza la utilizza soprattutto con finalità di condivisione. Si potrebbe far ricadere l’editing proposto da un DSP nella categoria del “nice to have” più che in un incremento di valore per il proprio pubblico principale (che non si sovrappone esattamente alla Gen Z che, a sua volta, lo identifica soprattutto come una "social feature”). "Carino da avere”, si sa, non coincide con strategico. Ma la considerazione più delicata, in questo caso, riguarda gli artisti, i distributori e le etichette. Sarebbero contenti, i primi? Credo che il grado di soddisfazione sarebbe inversamente proporzionale alla loro fama: i più celebri e affermati mal soffrirebbero la possibilità di vedere snaturate le loro opere, mentre i più affamati di notorietà e soprattutto le falangi dei creatori che appartengono al sotto-segmento indipendente "do it yourself" sarebbero ben più entusiasti. Le label riuscirebbero a ‘vendere’ ai loro artisti questa opzione come coerente con l’orientamento artist-centric? Hmm… Infine i distributori, che operano su coda lunga e larga scala e per i quali un euro annuale di ricavi per canzone è cosa buona: sì, sarebbero soddisfatti. E più ancora lo sarebbero i produttori di musica generata con AI. Venendo all’eventuale accesso alle prevendite dei biglietti dei concerti per gli abbonati di Spotify, il razionale sembrerebbe essere più quello della diversificazione, dell’accensione di una linea di ricavi aggiuntiva. Per come si conoscono la scena e l’industria musicale, non viene spontaneo immaginare che un utente debba contare su un DSP per accedere ad esclusive di ticketing in anteprima (trasversali e non monografiche, peraltro, come nei pre-ascolti di cui sopra). Tuttavia, siccome bisogna sapere immaginare per innovare, questa sensazione potrebbe non essere quella corretta. Il problema è che chi di biglietti se ne intende davvero, come Michael Rapino di Live Nation, si è premurato di avvertire che è meglio non crearsi soverchie aspettative in merito. Non è nemmeno troppo sibillino quando afferma che “le anteprime non sono scalabili”. Intende dire che il mercato è già pieno di accordi per anteprime di biglietti, grazie a sponsorship e programmi fedeltà attivate dai promoter; intende dire che non ce ne saranno per tutti; e, di conseguenza, sottintende che per Spotify potrebbero costare abbastanza. A chi giova? Sarebbe un beneficio economico per gli artisti o, pure qui, si finirebbe nel culo di sacco e nella polemica della ripartizione dei ricavi da streaming? Oppure la mossa beneficerebbe il promoter? O, infine, sarebbe “semplicemente" un bundle che, venendo poco utilizzato (non per mancanza di appeal, ma per limitata quantità disponibile), diventerebbe utile per incorporare un extra margine per il DSP? Le tre leve descritte originerebbero una condivisione di ricavi extra per la musica registrata e per le edizioni solo nei primi due casi; nel terzo caso il DSP dovrebbe condividere con altri. Per il DSP si tratterebbe di un’opzione di diversificazione che, però, non va certamente verso il modello Netflix, il cui indolore e ripetuto aumento dei prezzi è stato preso a modello dalle major per stimolare i DSP musicali a fare altrettanto. Dato che l’obiettivo è incrementare i ricavi anche se la crescita di abbonati rallenta, se proprio dobbiamo guardare in direzione di Netflix, allora notiamo che la società fondata da Reid Hastings ha dimostrato che i “suoi” superfans fanno spallucce purchè l’incremento di prezzo assomigli più o meno all’aumento dell’inflazione. Per Spotify e per l’intera filiera, allora, ecco una domanda: meglio cercare di attirare verso un'offerta il 50% più cara della media chi è già un utente del servizio oppure applicare un modesto e progressivo aumento di prezzo nel tempo? Insomma, bisognerebbe confrontare tra loro i risultati di due ipotetiche moltiplicazioni: da una parte "$ 18 per l'x % degli abbonati di Spotify", dall'altra "$ x per il 99% degli abbonati di Spotify". Le tre leve in questione, poi, evidenziano anche un tema di target: se la convergenza tecnologica tra gaming, DSP e social media è inconfutabile, altrettanto lo sono percezione dei servizi e segmentazione di un’utenza che non è detto che voglia ordinare una birretta in un'enoteca solo perchè è disponibile. Questo è solo un esercizio di analisi: dopo tutto basterebbe che all’anticipazione di Bloomberg si sommassero un paio di mosse di cui ancora non sappiamo per fare percepire a molti abbonati un incremento di valore tale da giustificare l’incremento di prezzo, centrando così un grosso successo. Però questa non è monetizzazione dei superfans. E’ segmentazione tra consumatori passivi e appassionati attivi - qualcosa oggi di inedito per lo streaming, riuscito nel miracolo di vendere la musica a miliardi di persone che, senza il cambio di paradigma dal possesso all’accesso, mai avrebbero speso almeno 120 euro/dollari/sterline all’anno per acquistarla. I consumatori pagano volentieri ‘poco’ per l’abbondanza, gli appassionati sono disposti a pagare molto per la scarsità. Purchè sia tale.