Se la carriera musicale di Federico Monti Arduini è nota ai più - soprattutto con lo pseudonimo Il Guardiano del Faro, con il quale è da poco tornato sulle scene con un singolo inedito, “Solamente mia”, uscito lo scorso gennaio - l’attività dell’artista in veste di talent scout lo è meno: molto prima di fondare la società di edizioni Café Concerto, il compositore milanese lavorò come A&R e produttore presso la Bluebell Records, etichetta che mise sotto contratto Fabrizio De André pubblicandone i primi tre album, dove - negli anni Sessanta - Monti Arduini ebbe l’opportunità di contribuire alla nascita e allo sviluppo delle carriere di nomi come Claudio Lippi, Carmen Villani, Peppino Gagliardi e Renato Pareti. A distanza di cinquant’anni dall’esperienza dall’altra parte della barricata che separa gli artisti dall’industria che li supporta, l’autore e interprete di “Amore grande, amore libero” traccia un bilancio dei suoi trascorsi come cacciatore di talenti, riflettendo - senza fare sconti a niente e nessuno - sui cambiamenti che nel tempo hanno contribuito a cambiare una delle professioni oggi considerate tra le più importanti dell’intera filiera creativa: "Il mestiere dell'A&R? Oggi è completamente sparito, perché...' Cercare - e, soprattutto, trovare - il talento è una dote naturale o una capacità che si può affinare? Crede sia possibile “trasmetterla”, professionalmente parlando, all’interno dello staff di un’etichetta? Ritengo che cercare e, soprattutto, trovare il talento sia assolutamente una dote naturale, che però allo stesso tempo ingloba in sé anche la capacità e il desiderio sia di ricerca continua sia di affinamento. Non ritengo quindi possibile trasmetterlo a chicchessia, in quanto o lo si ha o non lo si ha. Le realtà discografiche che l’hanno vista impegnata in questo ruolo - la Bluebell Records, su tutte - avevano un modello di business anni luce lontano da quello adottato dalle label oggi, che - tra le altre cose - implicava orizzonti più lunghi nei processi di sviluppo di un artista: in tanti sostengono che la drastica riduzione di questi orizzonti sia uno dei grandi limiti dell’industria discografica di oggi. E’ d’accordo? Indubbiamente i modelli di business delle label discografiche ai tempi in cui ricoprivo responsabilità artistiche erano di gran lunga di più “largo respiro”. Allora si sceglieva di investire su un artista avendo in programma di creare e produrre, e di raccogliere i frutti di tali investimenti nel tempo. Il tutto era estremamente favorito da due principali fattori: costi di realizzazione decisamente non paragonabili a quelli di oggigiorno e la raccolta, in caso di successo, di larghi utili economici, che divenivano poi il prologo di susseguenti investimenti. Va detto che la drastica riduzione di questi orizzonti non è del tutto imputabile alla discografia, ma va soprattutto attribuita ad una platea di fruitori completamente diversa da allora, che fa dell’usa e getta una necessità. Che è, poi, lo specchio della vita che viviamo in altri aspetti, alla quale sembra non si riesca più a sottrarsi. Ci sono, secondo lei, dei meccanismi nel mestiere dell’A&R che sono rimasti immutati, nella storia dell’industria discografica italiana? Penso, per esempio, alle strategie di sfruttamento di filoni particolarmente popolari in un determinato periodo - come può essere, in questi anni, l’urban… Direi che il mestiere dell’A&R è totalmente sparito. Non c’è più nelle case discografiche la persona con la quale gli artisti si confrontavano, discutevano e alla quale sottoponevano le loro creazioni artistiche. Nella maggior parte dei casi mi sembra che il prodotto arrivi all’industria discografica già bello che confezionato. Naturalmente venendo a mancare un polo di discussione e di esame, a volte anche conflittuale, con l’artista come quello che ricopriva l’A&R la creatività si è ristretta e il prodotto sempre più uniformato al gusto del momento. E’ stato un A&R, ma contemporaneamente era (ed è ancora) un artista e un produttore: come riusciva a fare convivere questi due lati della sua vita professionale? Le è mai capitato di pensare che uno potesse influenzare l’altro, nel bene e nel male? Al contrario! Il mio periodo come A&R e contemporaneamente come artista è stato il momento più bello ed esaltante della mia vita professionale. Riuscivo infatti a comunicare con gli artisti che seguivo comprendendone tutti i lati positivi e negativi che, volendo o non volendo, noi/loro abbiamo. Loro sentivano che ero uno di loro perché riuscivo ad avere, quasi con tutti, la capacità di entrare nelle loro sensibilità. Il problema lo avevo io dopo, quando dovevo difendere gli artisti e convincere i vertici delle varie case discografiche della bontà dei prodotti e della conseguente richiesta di investimenti. Com’è cambiato negli anni, per quella che è stata la sua percezione, il concetto di “successo” associato a un progetto discografico? Il concetto è cambiato molto. Allora non c’erano tutti i mezzi di comunicazione che abbiamo oggi. Allora il successo era la porta che si spalancava sul tuo futuro discografico e sul proseguire la tua attività creativa. Non c’erano altre ‘distrazioni’. Oggi le porte si sono moltiplicate e soprattutto vige la smania di apparire più che di essere, con conseguente grave danno al prodotto che è soggetto a tempi e richieste strettissimi. Come ha vissuto il passaggio dallo scouting discografico a quello editoriale? Quale la appassiona maggiormente, oggi? Perché? Devo dire, e permettetemi il termine assolutamente non pretenzioso, che io mi sento “artista”: non ho mai smesso di scrivere e incidere musica e a gennaio ho pubblicato il singolo “Solamente mia”, ma è un aspetto che ho rinnegato a lungo per quasi tutta la mia vita. Passare all’editoria è stato in parte un restare comunque con un piede nel mondo musicale. Un restare fortunatissimo perchè ho avuto e ho l’onore di rappresentare in Italia grandi gruppi editoriali musicali stranieri. Anche in questa attività ho messo quella voglia di “capire”, seppure su un piano totalmente diverso, i miei interlocutori le loro aspettative e i loro “perché”. In fondo il linguaggio non era poi cambiato molto, ma aveva molti punti in comune. Però parlare con un artista e lavorare insieme a lui è tutt’altra cosa… Come A&R editoriale, quale considera essere il suo progetto più riuscito? Aver creato da più di trent’anni una grande società editoriale totalmente indipendente: la mia Cafè Concerto. Cosa dovrebbe cercare, oggi, un A&R editoriale in un autore? Crede che nel settore del publishing questo lavoro sia cambiato meno - se non altro dal punto di vista concettuale - rispetto a quanto non sia cambiato nel settore della musica registrata? La spontaneità, la profondità dei sentimenti, e l’originalità delle sue creazioni. Infine una grande caparbietà nel credere in quello che fa. Basandosi su quello che ha ascoltato in questi ultimi anni, gli A&R di oggi stanno facendo un buon lavoro? Sono sinceramente a disagio a esprimere un giudizio. A denti stretti posso dire che in generale manca un po’ di coraggio. Troppo spesso si seguono le mode e non si ha pazienza di continuare sulla strada intrapresa anche se i primi riscontri non sono stati positivi.