Innovazione e cultura sono un binomio difficile. E il mondo della finanza, nel nostro paese, lo ritiene un binomio addirittura difficilissimo: il riconoscimento dell’innovazione culturale è, pertanto, molto scarso. Da questa considerazione si può partire per analizzare la fragilità dell’ecosistema di supporto alle startup in Italia, soprattutto in ambito culturale e, quindi, musicale. Scalare o non scalare? Le startup che operano all’incrocio tra cultura, arte e tecnologia faticano a far riconoscere il proprio valore economico nei contesti istituzionali, bancari e imprenditoriali. La principale ragione è che il comparto creativo viene percepito come "non scalabile" o "troppo di nicchia", nonostante pubblico e utenza non manchino affatto. La conseguenza di questa presunta non-scalabilità è che, se la creazione di un algoritmo dedicato all’automazione diventa sinonimo di “innovazione” in modo del tutto naturale, altrettanto non si può dire della percezione di un progetto per una piattaforma orientata ai superfans. E’ vero che quello italiano è un mercato finanziario che per dimensioni, tecnicismi e maturità non compete con l’élite mondiale; tuttavia sarebbe sbrigativo affermare che da noi manca il “funding”. La verità è che i fondi disponibili sono spesso orientati a settori più tech-driven, come il fintech e la mobilità. Potrebbero accorrere in soccorso dei progetti artistico-culturali i bandi e i fondi pubblici ma, come per troppi altri ambiti in Italia, assenza di agilità ed eccesso di burocrazia finiscono per rendere certi percorsi meno praticabili del dovuto. Un punto di collegamento ideale sarebbe una rete strutturata di angel investor che abbiano un autentico background di natura musicale o creativa. Purtroppo questo manca. Bootstrappers Tutto quanto sopra causa una conseguenza diffusa, ossia che molti fondatori autofinanziano la propria impresa oltre il necessario, con le migliori intenzioni ma rallentando la crescita. Più per necessità che per scelta, portano avanti il proprio progetto senza cercare supporti esterni e usando risorse minime anche quando potrebbero (o dovrebbero) provare a spiccare un salto verso il livello successivo. Fare tutto da soli significa lavorare con fondi propri, evitando round di investimento e crescendo in modo organico, controllato ma lento. Restare troppo tempo in una fase “artigianale” comporta perdere occasioni di crescita rapida, ma anche non potersi permettere di assumere talenti chiave per mancanza di budget e rinunciare a sviluppare tecnologie o prodotti scalabili. Insomma: “bootstrappare” è sano fino a un certo punto: anche con un’ottima idea, se non si aggiunge il motore del capitale il rischio di rimanere piccoli, poco visibili o bloccati diventa elevato. Il peso della ‘vocazione’ In Italia, poi, ad una cultura artistica forte corrisponde una cultura imprenditoriale più fragile. Molte startup musicali italiane nascono da musicisti, manager, promoter con un background creativo o operativo. Hanno visione e passione, ma spesso mancano di strumenti imprenditoriali concreti: non conoscono bene le metriche di prodotto e incontrano due generi di problemi. Non tengono nel dovuto conto quanto sia importante a validare l’offerta prima di investire risorse e, a causa di certe carenze di know-how, sono poco disposti a “cambiare idea” se qualcosa non funziona. Un esempio: una piattaforma di booking è, di per sé, sicuramente una buona idea imprenditoriale in campo musicale; ma verificare che gli utenti siano disposti a pagare ciò che si intende proporre, che il modello sia compreso o che l’eventuale frizione tra domanda e offerta sia poi gestibile è una fase cruciale. Raramente questi fondatori concepiscono il ‘pivot’ come un’opzione naturale, anzi: accade più spesso che a quel punto rinuncino. Eppure un pivot non equivale a un fallimento, semmai è un’iterazione intelligente. Di nuovo: dove non c’è capitale di rischio, l’ansia di sbagliare blocca la sperimentazione. Gli startupper si concentrano solo su ciò che “possono permettersi” e temono il fallimento di un’idea perché significherebbe “aver sprecato tutto”; evitano il rischio, proprio quando il rischio serve per crescere. Trattare la musica più come arte o vocazione che non come terreno per un’innovazione metodica fa sì che molte startup munite di ottime idee e intuizioni non evolvano. Servirebbe maggiore formazione imprenditoriale nei contesti musicali; sarebbe auspicabile più contaminazione tra chi fa musica e chi fa startup; e si avverte la carenza di un buon numero di investitori e mentori con esperienza in questo incrocio. Una filiera musicale disarticolata Chi opera nell’industria musicale a stretto contatto con realtà e settori diversi è abituato a pronunciare o ad ascoltare la frase: “la musica, in Italia, è un mondo a sé”. E’ vero o è un alibi? Entrambe le cose. E’ conclamato che unità e senso di appartenenza non siano le maggiori virtù della filiera musicale nostrana: la comunicazione tra artisti, discografici, operatori del settore live ed editori è frammentaria e, spesso, caratterizzata da inutili divisioni (basti ricordare la folla di rappresentanti alle trattative col governo ai tempi dei sussidi per il covid). Dunque pensare che possano comunicare in modo fluido con gli imprenditori tecnologici e gli sviluppatori, che abitano un altro pianeta, rasenta l’utopia. E così le opportunità di co-progettazione o contaminazione sono rare e manca un “mercato di test” cooperativo che una startup possa frequentare per sperimentare con un’etichetta, una scuola di musica, un promoter. Non che non accada mai; però gli episodi sono una cosa, ben altro è un vero ecosistema. E’ anche in questo modo che le startup musicali finiscono ai margini dell’industria tradizionale. Marketing e creatività: due sport diversi Si invoca spesso una maggiore contaminazione tra mondi differenti: tanti progetti nascono da musicisti, tecnologi o creativi con poca esperienza imprenditoriale - viceversa, chi ha effettive competenze di business spesso non conosce le dinamiche dell’industria musicale. Si avverte, dunque, la mancanza di una ‘mentorship’ diffusa e specializzata, il cui effetto consisterebbe nel diffondere una discreta formazione imprenditoriale. Privi di un vero ecosistema, gli startupper musicali scontano la debolezza nel cosiddetto “go-to-market”: nonostante molte nuove aziende italiane abbiano buone idee, non dispongono di chiare strategie di marketing e faticano a definire con precisione il problema reale che si prefiggono di risolvere. La creatività non basta se non si accompagna a una cultura del test, del dato, del pivot. L’accesso a dataset significativi consente di condividere metriche di settore importanti come conversioni, retention, dinamiche di prezzo e di partecipare a comunità di startup o incubatori verticali che aiutano a imparare dagli altri. Parametri come il Customer Lifetime Value (CLTV), che esprimono il valore totale che un cliente porta a un'azienda nell’arco del tempo in cui continuerà a usare il suo prodotto o servizio, sono fondamentali nella comprensione di quanto si può spendere per acquisirlo, quanto conviene che la fidelizzazione prevalga sulle vendite una tantum, quali clienti sono più preziosi (segmentazione) e, in ultima analisi, se un modello di business è sostenibile nel lungo periodo. In una fase “early stage” la rapidità dei feedback è essenziale per validare i test, incrementare l’apprendimento e apportare modifiche e miglioramenti. In Italia questo accade di rado e il riscontro dal mercato arriva tardi, lentamente e in modo disomogeneo. In mancanza di confronto, ogni errore sembra isolato. E ogni successo sembra casuale. Denaro, visione e industria Dunque: storie di musica e impresa spesso straordinarie ancora più spesso, non ce la fanno nemmeno a partire davvero. Perché? Le startup italiane nella musica, e nella cultura più in generale, non mancano decisamente di idee, creatività o passione, ma dove spesso inciampano è nella mancanza di connessioni abilitanti e strutturate tra tre elementi chiave: il capitale (denaro), la visione (strategia) e il sistema (l’industria, le reti, le policy). Il risultato è un cortocircuito: la cultura innova, ma non scala. E un Paese ricco di talento rischia di perdere opportunità decisive perché le startup culturali soffrono di isolamento sistemico. Manca un ecosistema che faccia dialogare in modo fluido e continuativo l’energia creativa, il capitale privato e i player istituzionali; un sistema che sappia finanziare e integrare l’innovazione culturale. Senza queste connessioni abilitanti, l’innovazione culturale resta artigianale, fragile, spesso invisibile e molte iniziative brillanti rimangono condannate alla marginalità, all’isolamento o a precoci interruzioni. Come parte attiva dell’industria musicale e come rappresentanti centrali del sistema dei media che le ruota intorno, proveremo a fare la nostra parte fin dai prossimi giorni. Il nostro ruolo ci consente di diffondere la consapevolezza del problema e la presenza dell’opportunità che le startup musicali italiane rappresentano, di offrire un’esposizione significativa ai loro fondatori e di attivare connessioni tra mondi diversi per i quali rappresentiamo un punto di informazione comune. E questo ruolo utilizzeremo fin dai prossimi giorni con una call to action dedicata.