Il primo decennio di questo secolo si chiude con un passaggio cruciale per l’industria musicale. I numeri delle vendite fisiche continuano a precipitare, mentre i nuovi equilibri creatisi – con Apple diventa player dominante nel mercato digitale – non dureranno: YouTube, iPhone, Spotify (e Shazam, e Soundcloud, ed i social media….) caratterizzeranno la seconda ondata digitale, quella che ridefinisce produzione, consumo e promozione. Con il concetto di album che perde centralità e la musica che si sgancia sempre di più dai supporti, si vive una fase di crisi ma anche di reinvenzione: emergono nuovi attori, nuovi modelli, nuovi linguaggi. Dopo lo shock iniziale della pirateria e l’ingresso di iTunes nel mercato, il periodo 2005–2009 segna una fase nuova: la musica digitale non è più un’anomalia, ma diventa lo standard. È una trasformazione non solo tecnologica, ma culturale: cambia dove ascoltiamo, come ascoltiamo, cosa scopriamo e soprattutto chi decide cosa arriva al pubblico. Nel 2005 YouTube debutta online. All’inizio un sito per caricare video amatoriali, ben presto diventa un motore globale di promozione musicale non convenzionale. Ogni artista, grande o piccolo, può raggiungere milioni di ascoltatori. I videoclip — e poi i lyric video, le esibizioni live, le cover e i mash-up — tornano a essere centrali nella circolazione della musica. Il concetto stesso di “successo” comincia a includere le visualizzazioni e la viralità diventa una nuova forma di legittimazione culturale. In meno di un anno diventerà il principale archivio video globale e il motore di scoperta musicale più potente mai visto. Al punto da essere presto fagocitato da Google, che ne farà uno dei propellenti più potenti per la sua raccolta pubblicitaria nei successivi vent’anni. Il videoclip, da strumento promozionale chiuso, si trasforma in uno strumento di monetizzazione prima ancora che di marketing - non senza anni di dure polemiche tra il big tech e l’industria, l’una contro l’altra armate nel rovente dibattito sul “value gap”. Ma l’industria — dapprima ostile — comincia lentamente a negoziare licenze. Evolve, e parecchio, la scena dei social media – un contesto sempre più rilevante per l’ecosistema musicale. In questi anni MySpace raggiunge il suo picco (è il social più visitato al mondo tra 2005 e 2008), e rappresenta il primo vero ambiente “musicale” digitale: band emergenti, artisti pop, fan community convivono nello stesso spazio. Nel 2006 debutta Twitter proprio mentre Facebook si apre al grande pubblico e cresce rapidamente. Inizia a cambiare il modo in cui si comunica la musica: i fans non sono più solo ascoltatori: sono follower, commentatori, creatori di contenuto. È l’inizio dell’“engagement” e dell’era delle piattaforme come strumenti di visibilità e relazione. Gli artisti lo capiscono immediatamente e cominciano a parlare direttamente ai fans, disintermediando sia i media che le loro etichette. Chi emerge — da Justin Bieber a Lily Allen — lo fa prima online che in radio. Il pubblico diventa attivo, partecipe, reattivo. I fan club si trasformano in community digitali. Parallelamente, nel 2007 Apple presenta l’iPhone. Non è solo un telefono: è il primo dispositivo che unisce in un’unica esperienza ascolto, accesso a internet, applicazioni e condivisione. L’iPod si fonde con il web. Nascono le prime app musicali. Il consumo diventa immediato, ubiquo, ininterrotto. È la nascita della musica “nel palmo della mano”, e apre la strada a un uso sempre più fluido e istantaneo. È in questo contesto che il 2008 segna un altro passaggio epocale: in Svezia nasce Spotify. Il modello è semplice e rivoluzionario: ascolto in streaming on demand, gratuito (con pubblicità) o in abbonamento. Nessun download, nessun possesso. Solo accesso. All’inizio è un esperimento regionale, ma entro il 2009 inizia già a far parlare di sé nel mondo dell’industria musicale. Alcuni vedono in Spotify un’ulteriore minaccia, altri la prima vera alternativa alla pirateria. L’industria discografica, intanto, continua a cercare equilibrio. Le major sono costrette a continuare a ridurre personale e investimenti per far fronte al crollo irreversibile dei loro ricavi principali, quelli legati alle vendite dei prodotti fisici. Il mercato è in contrazione. E nel 2008, con il crollo di Lehman Brothers e l’inizio della crisi finanziaria globale, anche la musica entra in recessione. I budget pubblicitari precipitano, i tour diventano più rischiosi, gli investimenti sulle nuove uscite si riducono. Ma proprio in quel contesto difficile, nuove strategie emergono: autoproduzione, crowdfunding, uso creativo dei social. Con i budget dei videoclip azzerati, ad esempio, YouTube ne approfitta per sdoganare lo “user generated content” (con produzioni low-fi ma, gradualmente, sempre più decorose grazie al crollo delle barriere all’ingresso di natura tecnologica e produttiva) mentre MTV perde di rilevanza e si reinventa come canale generalista, abbandonando lentamente la musica a favore di reality show e serie. L’industria è sempre più incentrata sul singolo digitale e sulla monetizzazione della carriera dell’artista, chiamato a generare ricavi attraverso concerti, endorsement, social e merchandise. Cambia anche la narrazione dell’artista stesso: da icona distante a presenza quotidiana, accessibile. YouTube e Facebook accorciano le distanze. L’era dei blog musicali plasma il gusto di una nuova generazione. L’autorità si decentra. Il filtro diventerà l’algoritmo, il target assumerà la forma delle comunità, il canale di distribuzione sarà la condivisione. Alla crisi indotta dalla tecnologia si somma un collasso culturale del modello pre-digitale. Eppure, proprio in questo caos, cominciano a emergere le prime risposte sistemiche: i primi accordi tra etichette e piattaforme digitali, le licenze con YouTube, i modelli ad abbonamento, le partnership con le telco. È una fase di adattamento forzato e parziale, ma la direzione è tracciata. A posteriori, il quinquennio 2005–2009 emerge come l’incubatore dell’ecosistema musicale che viviamo oggi. È la seconda grande rivoluzione digitale: meno spettacolare della prima, ma molto più strutturale. L’industria, pur ancora ferita, comincia ad adattarsi. Il pubblico, invece, ha già cambiato pelle. La musica non è più un prodotto da acquistare, ma un flusso da attraversare. Il quinquennio 2005–2009 è un periodo di transizione profonda, in cui il valore monetario della musica si contrae, ma la sua diffusione esplode. È la crisi più profonda della discografia — ma anche la premessa per la sua trasformazione successiva. Leggi anche: 2005–2009: una nuova geografia digitale per l’industria