Nel 2005 viene lanciata la prima piattaforma video ad incarnare il concetto di “user generated content”: è YouTube. Gli utenti, da semplici creatori di blog, diventano creatori di clip: milioni di essi trovano casa, e anche la musica trova una nuova casa. In pochi mesi, milioni di brani e videoclip vengono caricati dagli utenti e l’industria discografica è inizialmente ostile, comprensibilmente sensibile al tema del copyright che in soli sei anni è diventato gigantesco con l’avvento del file sharing. Warner Music, Universal Music e Sony Music – ma anche reti televisive e media tradizionali - intentano cause e richiedono la rimozione dei contenuti. Ma, nel giro di due anni, le label inizieranno a firmare accordi di licenza. Il lancio della piattaforma video rivoluziona la promozione musicale e sblocca il fenomeno della viralità globale (il primo clip virale, per la cronaca, si rivela “Here It Goes Again” degli OK Go, la dimostrazione plastica del potenziale del videoclip come contenuto condivisibile). Prova ne sia che l’anno successivo Universal lancia VEVO insieme a YouTube, facendone la piattaforma video ufficiale per monetizzare e controllare i contenuti degli artisti. Il 2006, anche per questa ragione, si rivela un anno denso. Infatti, mentre MySpace è al suo picco con 100 milioni di utenti ed è la piattaforma social musicale dominante, un ‘nuovo’ player dei social media perde il “the” del suo marchio originale ed esplode come fenomeno mondiale: Facebook si apre a tutti gli utenti, dopo essere stato limitato alle università, e conduce il social networking dritto nel mainstream, creando a sua volta le basi per farne un altro strumento chiave per la promozione musicale. Uno dei temi forti, qui, è la disintermediazione: per la prima volta gli artisti possono costruire efficacemente un’audience senza passare dalla radio o dalla TV. Ma, soprattutto, il 2006 è l’anno in cui Spotify viene fondata in Svezia: comincia a circolare in beta, ma getta le basi del futuro modello streaming on-demand. La sua value proposition, cinque anni dopo l’irruzione di Steve Jobs nell’industria musicale, è semplice e ambiziosa: musica in streaming legale e gratuita – grazie alla pubblicità. 2007: Apple lancia l’iPhone. L’App Store arriverà l’anno dopo, ma è già chiaro che il telefono diventerà il centro della fruizione musicale portatile. L’iPod resiste, ma l’integrazione tra smartphone e streaming è dietro l’angolo. Nel 2007 Apple introduce l’iPhone, il dispositivo che cambierà per sempre l’ascolto della musica: il telefono diventerà il centro della sua fruizione portatile. Comincia l’era dello smartphone: l’integrazione tra la connessione in tempo reale e la portatilità, mentre l’iPod tenta ancora di resistere, spalancherà definitivamente le porte allo streaming. Ma la convivenza con il modello “pay per”, in questa fase, è totale. E I Radiohead pubblicano “In Rainbows” con il modello “pay-what-you-want”: l'album, prodotto e distribuito in modalità indipendente, viene reso dispobile sul sito della band per il download, gratuitamente e/o con donazione. Una scossa tellurica percorre la discografia e la distribuzione musicale, mentre il potere comincia a oscillare dalla parte degli artisti. Sempre in tema di download, iTunes affronta la sua prima seria forma di concorrenza: Amazon lancia infatti il suo MP3 Store senza DRM, il primo colosso a offrire musica digitale senza restrizioni. I download, purtroppo, non compensano il crollo dei fatturati discografici: la IFPI stima un calo del 25% delle vendite fisiche in 3 anni. Con il mercato discografico in caduta libera, urge un cambio di paradigma. A incoraggiarlo, nel 2008, è il lancio in beta in Svezia da parte di Spotify del modello freemium (gratis con pubblicità, o a pagamento senza), che segna la nascita dello streaming on demand come lo conosciamo oggi. Il catalogo iniziale è ridotto, ma la fluidità dell’esperienza utente sorprende tutti. Licenze con le major e un’interfaccia user-friendly: il futuro è servito. E nel futuro, lo si vedrà, si dovrà affrontare il tema della music discovery; a questo proposito un contributo signifiativo verrà dalla versione di Shazam per iPhone, che consente di tramutare in realtà il sogno di di identificare canzoni in pochi secondi: anche così cambia il modo di scoprire musica. Nel frattempo SoundCloud viene lanciato a Berlino: il posizionamento della nuova piattaforma di streaming è diverso da quello di Spotify e la impone come hub ideale per produttori, remix e indie DIY. Nel 2009 il download legale (iTunes) raggiunge quello che si rivelerà un picco ma, di nuovo, i numeri non bastano a compensare il crollo dei CD. Le vendite fisiche sono in declino costante in tutto il mondo. La IFPI certifica che l’industria discografica ha perso oltre il 50% dei ricavi rispetto all’inizio del decennio. Quell’anno YouTube lancia il programma di monetizzazione per i content creator: i musicisti possono guadagnare direttamente dai loro video. Sono i prodromi della ‘creators economy” e il termine monetizzazione entra di prepotenza nel lessico di in un’industria che lascerà indietro il modello transazionale ‘pay per’ con il quale ha fatto fortuna per decenni. Ecco perché, parallelamente, si rafforza l’importanza di nuove metriche: visualizzazioni, follower, streams... Il successo non si misura più in copie vendute, ma in engagement. Il quinquennio 2005–2009 chiude definitivamente la fase di transizione e spalanca le porte alla “music-as-a-service”. Da qui in avanti, l’industria sarà data-driven, orientata agli abbonamenti e costretta a ridisegnare la propria funzione culturale ed economica. Leggi anche: 2005–2009: crisi e piattaforme, la reinvenzione dell’industria