<p style="text-align:left"><span><span><span><span>Lo scontro tra big tech e industria musicale sul terreno dell’AI generativa è epocale. Dal punto di vista economico pone a rischio i modelli di business di un’intera filiera. A livello culturale mette in dubbio il valore stesso delle opere dell’ingegno. E poi si avverte la sensazione dell’ennesima puntata della serie “Invece che chiedere permesso prima, meglio chiedere scusa dopo”.</span></span></span></span></p> <p style="text-align:left"><span><span><span><span>L’accusa di violazione del copyright in fase di addestramento dei dati da parte dei grandi modelli di linguaggio (LLM) è anche al centro di uno scontro politico, con pessimi segnali dagli Stati Uniti: l’amministrazione Trump propende per la parte tecnologica della barricata e la musica pare contare sul solo supporto a trazione democratica (rischiando pure di apparire luddista, suo malgrado, agli occhi del non addetto ai lavori).</span></span></span></span></p> <p style="text-align:left"><span><span><span><span>Anche se l’indotto culturale e sociologico della musica pesa, probabilmente, più di quello di qualsiasi altra industria, tra il music business e le pantagrueliche somme di denaro che le startup raccolgono dal venture capital la differenza che passa è quella tra i miliardi generati dalla nostra industria e i triliardi delle valutazioni attribuite a un nugolo di grandi operatori tecnologici. </span></span></span></span></p> <p style="text-align:left"><span><span><span><span><strong>Money</strong></span></span></span></span></p> <p style="text-align:left"><span><span><span>E</span></span><span>’</span><span><span> legittima e frequente la domanda: ma perché mai tanti investitori sono disposti a finanziare startup di AI generativa, il 99% abbondante delle quali fallirà di sicuro? Circola una risposta cinica e graffiante: perché quel denaro servirà a pagare le cause legali che dovranno affrontare. Oppure, la sua versione light: per pagare licenze innovative che remunerino il training su dati protetti da copyright.</span></span></span></p> <p style="text-align:left"><span><span><span>Ma c</span></span><span>’</span><span><span>è un’altra domanda che conta di più: perché </span></span><span><span><span><em>servono</em></span></span></span><span><span> tanti soldi in questo nuovo settore della tecnologia? Succede perché, per la finanza, l’AI generativa rappresenta un </span></span><span><span><span><span>fortissimo </span></span></span></span><span><span>punto di discontinuità rispetto alla tecnologia “tradizionale”. Se infatti ciò che rende attraente investire in tecnologia sono i suoi costi marginali talmente bassi da tendere a zero, quelli della AI sono invece molto elevati. Quando un prodotto viene costruito, nel mondo del SaaS (software as a service), delle app, del cloud il costo di distribuzione e di servizio di un utente addizionale è quasi nullo: si pensi, per esempio, quanto costa a Google aggiungere un altro utente di Gmail. A quel punto per scalare non occorre inventarsi più nulla, dato che la scalabilità dipende dalla semplice ripetizione. Se poi le si somma anche l’effetto-network (che si manifesta quando il valore di un business aumenta all’aumentare del numero dei suoi utenti), si capisce anche perchè le aziende di software marginano mediamente tra il 70% e il 90%.</span></span></span></p> <p style="text-align:left"><span><span><span><span>Ma l’AI generativa è diversa, soprattutto a livello infrastrutturale. Ogni query di ciascun utente su Gemini o su Chat GPT determina un significativo costo di calcolo aggiuntivo. Qualsiasi richiesta per un LLM è onerosa, comporta un costo marginale alto; non c’è l’equivalente del "serve from cache" tipico del SaaS, perché la maggior parte delle interazioni sono processi nuovi, originali e “compute-intensive”. Qui la scalabilità è tutt’altro che un fenomeno naturale, anzi: è un processo che è difficoltoso generare per lungo tempo. Per accogliere milioni di utenti aggiuntivi occorre potenziare i cluster di GPU – scarsi e molto cari – e continuare a sostenere costi unitari per ogni richiesta aggiuntiva, costi persistenti e di natura variabile (quindi difficilmente stimabili). Dunque, i margini lordi sono molto inferiori e la necessità degli investimenti richiesti per la crescita è molto superiore e anche più prolungata. Insomma, l’espressione “software eats the world” viene bellamente smentita dalla AI generativa, perché il suo modello non scala come quello del software tradizionale, come il SaaS.</span></span></span></span></p> <p style="text-align:left"><span><span><span><span><strong>Come nello streaming</strong></span></span></span></span></p> <p style="text-align:left"><span><span><span><span>E’ come se le startup “AI-native” assomigliassero più ad aziende infrastrutturali o a quelle dei semiconduttori che non a società di software: lo dicono i modelli di business, i tipi di vantaggi competitivi, le soglie di investimento. Che, in fondo, sono proprio tre punti di riferimento che suggeriscono come, in qualche modo, l’AI generativa assomigli economicamente anche allo streaming. </span></span></span></span></p> <p style="text-align:left"><span><span><span><span>Nello streaming ogni utente consuma una quantità di banda discreta e misurabile - un milione di ascolti o di visualizzazioni equivalgano a un milione di data streams. Il costo marginale non è zero, perché occorrono capacità della CDN, ampiezza di banda, storage. Significa che, mentre si cresce per scalare, i costi crescono con l’utilizzo, in modo lineare o non lineare a seconda dell’infrastruttura. Per questa ragione le piattaforme di streaming hanno l’esigenza di ottimizzare in termini di efficienza (si pensi alla compressione dei dati, al caching, al livello di servizio variabile con i picchi e i flessi di ascolto/visione).</span></span></span></span></p> <p style="text-align:left"><span><span><span><span>Il paragone con l’AI generativa? Ogni prompt genera una sessione computazionale (uso della GPU, della memoria etc), così un milione di utenti simultanei equivale a un milione di processi di elaborazione di richieste; il costo marginale è alto perché il calcolo in tempo reale è costoso e non può essere gestito in cache; e il tempo di impiego della GPU – al contrario del SaaS – non è gratis (non paghi una volta e riutilizzi all’infinito). Come nello streaming, i servizi di AI corrono il rischio di diventare vittime del loro successo: maggiore l’utilizzo, maggiori i costi.</span></span></span></span></p> <p style="text-align:left"><span><span><span><span>Quindi sì, l’AI è strutturalmente più vicina allo streaming che al SaaS. Il suo è un modello “cost-per-interaction”, non un modello “zero-marginal-cost”. Il che influenza:</span></span></span></span></p> <ul> <li><span>la progettazione del modello di business (il freemium è rischioso a meno che all’utilizzo consentito non sia applicato un tetto massimo)</span></li> <li><span>la strategia infrastrutturale (occorre ottimizzare il costo per richiesta)</span></li> <li><span>le necessità di monetizzazione (i prezzi basati sull’utilizzo sono essenziali per la sostenibilità).</span></li> </ul> <p style="text-align:left"><span><span><span><span>E, come nello streaming, il successo di una piattaforma di AI dipende da se e da come il costo per utilizzo può essere ridotto più rapidamente della crescita dell’utilizzo complessivo. </span></span></span></span></p> <p style="text-align:left"><span><span><span><span><strong>Tracce di futuro</strong></span></span></span></span></p> <p style="text-align:left"><span><span><span><span>Sostenere che lo streaming musicale ha qualcosa da suggerire al comparto dell’AI generativa può suonare esagerato. Però sappiamo con certezza che, dopo successive raccolte di capitale, Spotify ha impiegato oltre una dozzina d’anni a seguito della sua quotazione per diventare profittevole. Il mercato ha avuto pazienza e ha creduto non tanto alla sua crescita, poiché ne aveva validato molto presto il modello, quanto invece alla <em>necessità </em>della sua crescita come pre-condizione per diventare un business redditizio. Se le startup di Gen AI troveranno una quadra con l’industria musicale, per come funzionano i modelli che oggi siamo in grado di vedere e utilizzare, ciò avverrà sulla base di un sistema di licenze innovativo, intorno al quale saranno presenti una serie di meccanismi a protezione degli aventi diritto, a partire da opt in e opt out. Aggiungere i costi di licenza appesantirà i costi delle poche protagoniste che, dopo questa fase di boom, avranno una rilevanza globale con un modello B2C. Quindi, come Spotify, dovranno sapere crescere macinando perdite e incrementando utenti, fino a che la presa sul mercato sarà talmente forte che potranno aumentare anche i prezzi.</span></span></span></span></p>