Dopo i conti sul semestre esposti ieri, il titolo di Spotify è crollato in borsa in poche ore perdendo il 12%. Un andamento che potrebbe apparire incoerente, o contro-intuitivo. Eppure, quando si esprime, il mercato la fa su basi precise, a prescindere che le si possa ritenere ragionevoli o meno. Ieri la ragione per cui le azioni del DSP svedese sono precipitate è inequivocabile: la raccolta pubblicitaria. Che, incidentalmente, coincide con la sola nota stonata espressa nella call con gli analisti di ieri, se si esaminano le dichiarazioni sia del CEO Daniel Ek che del co-presidente di Spotify, Alex Norström: entrambi hanno dichiarato che il business pubblicitario non era progredito abbastanza. La bottom line ha evidenziato che i ricavi e l’utile operativo sono stati inferiori rispetto alle previsioni precedenti fornite da Spotify. Il calo dei ricavi è principalmente riconducibile all’indebolimento del dollaro statunitense rispetto all’euro durante il trimestre, mentre quello dell’utile è stato causato da un aumento dei costi del personale e di altre spese (la sforbiciata del 2024 ha cessato di produrre effetti positivi sull’EBITDA). In questo contesto, la crescita dei ricavi pubblicitari di Spotify - escludendo l’impatto del cambio - è stata del 5%. Sul suo valore assoluto si può speculare: è poco o tanto? Su quello relativo, invece, meno: il 5% diventa poca cosa se si paragona alla crescita del 10% degli utenti della versione gratuita del servizio. E la relazione tra questi ultimi e le inserzioni è alla base di una parte cruciale del modello di business di Spotify. Infatti, se Spotify cerca costantemente di spingere gli ascoltatori frequenti del suo tier gratuito ad abbonarsi al livello a pagamento (senza pubblicità), di fatto cannibalizza il proprio business pubblicitario per spingere gli abbonamenti. Operativamente, poi, la forte pressione pubblicitaria vorrebbe sia funzionare come incentivo alla conversione, sia come spinta alla raccolta in una fase di costante diminuzione dei CPM (i prezzi unitari degli annunci). Quindi due forze che teoricamente sono coerenti tra loro nel grande schema delle cose risultano, in effetti, operativamente contrapposte. Ciò si traduce in un problema soprattutto nella misura in cui, da anni, Spotify sostiene che il suo business pubblicitario crescerà. Quando questo non accade, i mercati la puniscono. Allora c’è da chiedersi anche a cosa sia ancorata, e se sia realistica, questa aspettativa di Ek, questa sua visione sul potenziale di Spotify nella pubblicità. Nel breve termine una risposta - come quella di ieri - non potrà che giungere, entro un paio di trimestri, dalla performance dei nuovi vertici di divisione (l’ex capo dell’advertising, Lee Brown, fu infatti accompagnato alla porta mesi fa e oggi lavora a Doordash). Per il lungo periodo non ci sono risposte rapide, anzi: abbondano le domande e la curiosità. Un paio di considerazioni, però, possono aiutare a ragionare sul tema. Innanzitutto occorre ricordare che la raccolta pubblicitaria cresce lungo tre parametri: i prezzi delle singole inserzioni, il numero dei clienti non paganti e il tempo che trascorrono sul servizio. Se la prima metrica si esprime nel contesto più ampio del mercato pubblicitario (quindi Spotify la controlla relativamente) e la seconda esprime il “new business” dell’azienda (pertanto dipende dalle sue strategie di comunicazione, da quelle di differenziazione e diversificazione del servizio e dallo sbarco in geografie meno mature), in questo ruggente 2025 è la terza a candidarsi come osservata speciale. Perchè il tempo speso a bordo dell’app dipende dal tasso di coinvolgimento (‘engagement’) ed esprime la prestazione dell’algoritmo proprietario del DSP. Come funziona? Boh. Conta solo notare che, come qualsiasi altra ricetta ad hoc, la sua vera quota di segretezza riguarda meno le formule dei prompt (le istruzioni che si impartiscono all’algoritmo); e che i prompt possono essere aggiornati in pochi minuti. La seconda considerazione riguarda il vero mestiere di Spotify, e qui mi viene in mente McDonald’s. Il marchio che agli occhi di tutto il mondo è sinonimo del fast food non prolifera per la ristorazione ma grazie al real estate. I mattoni contano e rendono più degli hamburger. Come? Per modello McDonald’s è proprietario dell’immobile, mentre il franchisee gestisce il ristorante e paga al franchiser dalla M arcuata un affitto mensile, una royalty sul fatturato e quote delle spese pubblicitarie più altri costi operativi. Perciò, anche se un ristorante non ha performance eccellenti, McDonald’s continua a guadagnare da quell'esercizio grazie ai canoni immobiliari e accessori: qualcosa che rende il suo modello più stabile e resiliente rispetto a un tipico operatore della ristorazione. Per Spotify gli hamburger sono gli stream e i mattoni sono i dati. Agli occhi di tutto il mondo è il fornitore leader di un servizio musicale in streaming ma, strutturalmente, è un potente operatore dell’economia dei dati. Ne ha miliardi di tonnellate disponibili, e li usa. Tra l’altro, con raffinate tecniche di personalizzazione del servizio e delle inserzioni, orientando nel tempo gli utenti verso quelle parti di prodotto (musicale e non, umano o artificiale) che più assecondano engagement e inserzionisti.