La recentissima ricerca canadese in base alla quale non esisterebbero correlazioni significative tra l’attività di file sharing gratuito e il mancato acquisto di cd (vedi News) ha subito sollevato prevedibili reazioni e polemiche, tanto nel mondo accademico che negli ambienti della discografia. In particolare il professor Stan Liebowitz dell’Università del Texas, uno dei massimi studiosi mondiali del fenomeno, l’ha immediatamente bollata come fuorviante, viziata da gravi errori metodologici e in contrasto tanto con le conclusioni di altri studi che con il buon senso comune. Contrariamente all’incremento nelle vendite che risulterebbe dalle ipotesi formulate da Brigitte Andersen e Marion Frenz (le due autrici della ricerca, ndr), scrive Liebowitz sul suo sito Internet (www.utdallas.edu/~liebowit/), “queste ultime in Canada sono calate considerevolmente a partire dal 1999. Secondo le statistiche dell’IFPI nel 2005 la flessione in termini di unità è stata del 30%, mentre quelle dell’associazione dei discografici canadesi indicano un calo del 20 %”. “E per quale causa plausibile?”, si chiede lo studioso statunitense, dal momento che Andersen e Frenz escludono anche un brusco cambio di destinazione del reddito disponibile verso altri prodotti di intrattenimento. Data per scontata la buona fede delle due ricercatrici, Liebowitz attribuisce quelle che lui considera conclusioni campate per aria a presupposti infondati (un consumo pro capite di cd molto più alto di quello reale), a distorsioni nella costruzione del campione (che include solo i file sharer) e a errori nell’elaborazione dei dati. Le riflessioni del professore del Texas, insomma, vanno nella stessa direzione dello studio della Fondazione Einaudi di Roma che, in Italia, ha rilevato una diminuzione nell’acquisto di cd da parte del 32 % dei consumatori che scaricano musica da Internet (vedi News). Chi ha ragione?