Secondo i dati appena pubblicati da Soundscan, le vendite di album in vinile negli Stati Uniti sono cresciute in un anno del 37% circa, passando da 1,5 milioni a 1,9 milioni (rilevamenti rapportati entrambi ai periodi 1 gennaio-31 ottobre). Notevole la concomitanza con l'ascesa delle vendite dei singoli digitali, ma anche la forbice culturale e dimensionale che contraddistingue i due trend. Da un lato, infatti, si manifesta una tendenza generalizzata e inarrestabile, spinta dalla tecnologia che ha affermato modalità di fruizione sempre più consolidate; e numeri impressionanti: saranno abbondantemente superati i 65 milioni di album digitali venduti lo scorso anno e la prossima settimana anche il record dei singoli (un miliardo) sarà infranto, portando l'incremento annuale intorno all'8-10%. Dall'altro - quello del prodotto in vinile - si coglie netto il segnale di recupero di un supporto che prima era stato penalizzato dall'obsolescenza, poi si era trasformato in strumento di nicchia (aree DJing, underground), infine in oggetto di culto (a metà anni 2000). Da qui, il vinile ha spiccato un piccolo ma significativo balzo in avanti: da articolo per collezionisti ha acquisito uno status nuovo, a metà tra il posizionamento 'vintage' e la richiesta di fisicità che molti consumatori hanno reso esplicita. Il risultato è che oggi, al contrario di quanto accadeva solo tre anni fa, molti artisti mainstream hanno ricominciato a pubblicare vinile e che, in assenza di forme ibride di prodotto digitale che aggiungano valore al singolo file (con l'eccezione di packaging speciali e appannaggio di grandi nomi e grandi eventi), è al vinile che tocca l'onore di restituire alla musica la fisicità di cui è restata orfana (e anche quel quid che, paradossalmente, oggi giustifica un prezzo più alto per un vecchio arnese).
