Le evoluzioni del mercato musicale monitorate dalla EMI attraverso il programma Global Consumer Insight gettano luci e ombre sul segmento dello streaming. "Interessante notare", scrive l'analista Mark Mulligan, "che nonostante un sempre maggior numero di consumatori si faccia coinvolgere dai servizi di streaming, tra chi li utilizza il numero di coloro che ne incrementano l'uso risulta inferiore a quello di chi lo ha diminuito rispetto a dodici mesi fa". Le risultanze, aggiunge Mulligan, sono diverse da Paese a Paese: l'uso dello streaming, secondo i sondaggi a campione condotti da EMI nel 2011, cresce in Svezia (la patria di Spotify), Norvegia e Giappone, mentre diminuisce, sia pure marginalmente, in Spagna, Francia e Danimarca (qui la tabella, che esclude l'Italia dalle rilevazioni). I motivi? L'esperto di mercato statunitense cita come possibili concause il venir meno dell'effetto novità e le restrizioni imposte all'uso gratuito delle piattaforme, soprattutto per chi vi vuole accedere tramite smartphone o altro dispositivo mobile. Senza dimenticare, come osserva Paul Resnikoff di Digital Music News, che la minore frequenza e assiduità è un fenomeno normale quando una modalità di consumo passa dalla nicchia al pubblico massa, dallo zoccolo duro dei consumatori assidui alla fascia ampia degli utenti più distratti e casuali. Le osservazioni di Mulligan e Resnikoff si inseriscono nel quadro di un dibattito sempre acceso sul valore economico dello streaming per artisti e case discografiche: qualche giorno fa Martin Mills del Beggars Group aveva dichiarato (venendo anche frainteso) che per alcuni artisti "di catalogo" le royalty da streaming sono diventate più remunerative di quelle generate dai download: osservazione da prendere con le molle e da contestualizzare, ha subito commentato Glenn Peoples di Billboard, replicando che si tratta comunque di un'eccezione e non della regola dal momento che nello stesso Regno Unito (dati 2011) i ricavi generati dai download rappresentano tuttora l'85 per cento del fatturato della musica digitale e quelli prodotti dall'abbonamento ai servizi di streaming appena l'8 per cento.